Informazioni personali

scritti di Marco Treves - papers by Marco Treves

QUALI SONO I DITTONGHI ITALIANI ** by Marco Treves QUALI SONO I DITTONGHI ITALIANI Distinguere: 1 - Dittongo (unione costante di due vocali della stessa parola in una sola sillaba): e. g. taurus. 2 - Sinizesi o sineresi (unione occasionale di due vocali della stessa parola in una sola sillaba): e. g. alvëo > alvéo. 3 - Nesso di semivocale + vocale: e. g. coniugis, voluntas. 4 - Fognatura (riduzione di vocale sillabica a semivocale): e. g. ábíĕtĕ>àbiĕtĕ. 5 - Fognatura d’altro tipo (riduzione di vocale di dittongo a semivocale) e. g. Troia; Aiax. In italiano le vocali si distinguono dalle consonanti per l’apostrofo, la sinalefe ecc. Il termine semivocali e’ usato dai varii grammatici con significati molto diversi. Noi chiameremo semivocali le consonanti iniziali delle voci inglesi wool, yes e delle voci latine iugum, - 1 - DITTONGHI ITALIANI o PRESUNTI 1 - uo da ŏ latino. Dittongo. Ragioni: a - dieresi illecita b - art, i : l’uomo, l’uovo, l’uopo c - altre parole apostrofate quest’uomo ecc. d - il suolo, il suono, il, suocero (s non impura) e - pruova, truova, truogolo (mai 3 consonanti iniziali delle quali nessuna sia s) f - giuoco, fagiuolo, lenzuolo, spagnuolo, romagnuolo ecc. g - luogo, muore, muove, nuoce, nuovo, ruota h - gli uomini con sinalefe i - differenza di suono tra uomo e warm (ma quando precede occlusiva la differenza e’ impercettibile). 2 - ie da ĕ latino, Dittongo. Ragioni: a - dieresi illecita b - l’altr’ieri c - il siero d - drieto, priego, triema, triegua e - allievo, sollievo, allieta, assieme, Pontassieve f - lieto, lieve, lievito, miele, mietere, niega, riede g - differenza di suono tra ieri e yell (ma quando precede occlusiva la differenza e’ impercettibile) 3 - iero ecc. Dittongo. Ragioni: a - dieresi illecita b - destriero, balestriere, negriero, leviero c - corazziere, guerriero, spalliera, finanziere, cassiere, ecc. 4 - iamo, -iate (presente dei verbi). Dittongo. Ragioni: a - dieresi illecita - 2 - b - mostriamo ecc. c - possiamo ecc. 5 - ia, ie, io, da ea, ecc. lat. In parole di fonetica popolare ( abbia, rabbia, gabbia, vendemmia, empio, seppia ecc) Dittongo. Ragioni: a - dieresi illecita b - non separare abbia e sappia da abbiamo e sappiamo (v.n. 4) c - plur. dei nomi e 2 persona sing. dei verbi con i semplice: sappi rima con tappi ecc. 6 - ia, ie, io, iu, da la, le, lo, lu. Dittongo. Ragioni: a - dieresi illecita presso i migliori b - plur. dei nomi e 2 pers. Dei verbi con i semplice: occhi, doppi, ringhi ecc. c - Fiorenze > Firenze; piovere > piviere. 7 - fornaio ecc. (fonetica popolare con i intervocalica). Dittongo (for-naio). Ragioni a - dieresi illecita presso i migliori. b - sinizesi gennaio, Pistoia, copertoio c - plur. fornai ecc. con i semplice, rima con andai ecc. d - scansione carducciana brumaïo (sdrucciolo) a ogni modo testimonia che i e’ vocale. e - differenza di suono da sbajo, voja ecc. (romanesco) e da aio, peius, Troia ecc. (latino) f - differenza di suono da buyer, lawyer ecc. (inglese), da eier, feuer ecc. (tedesco) e da 8 - -ia, -ie, -io, ii finale atono di parole di fonetica dotta (invidia, encomio, patria, progenie, Italia ecc.). Sinizesi. Ragioni: a - per lo piu’ sinizesi, talvolta dieresi in mezzo al verso b - sempre dieresi in fin di verso - 3 - 9 - -ia, ecc. di parole dotte, ma non finale (passione, orientale) ecc. a - sineresi o dieresi secondo ragioni d’eufonia ecc. b - sempre dieresi dopo tr, qu, ecc. (trionfale, patriarca, quiete ecc). Nel verso dieresi anche dopo r (orientale ecc) 10 - gua, gue, gui, guo, (in lingua, guerra ecc) gua, que, qui, quo, Dubbio se dittongo o nesso di semivocale + vocale. Ragioni a - dieresi illecita b - la mancanza di parole come linguaccia fa credere che l’it. manchi della semivocale w. c - la difficolta’ per gli italiani di pronunziare wool, woman, would, ecc. d - Guiglielmo> Guglielmo; questui > costui; sguisciare > sgusciare e - ma l’impossibilita’ di fare sinizesi di persuado, attuale, duello, Luigi ecc. fa credere che l’it. manchi del ditt. ua, ue, ecc. 11 - ua, ue, ui, uo, (accetto parole dei n. l e 10). Sineresi o dieresi. Regole a - sineresi o dieresi se ambedue pretoniche (persuadere) b - sempre dieresi se seconda tonica (persuado, duetto) ecc. presuntuoso c - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se posttoniche (innocuo) ecc. in mezzo al verso d - sempre dieresi se posttoniche in fin di verso e - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se prima tonica (sua, lui, ecc.) in mezzo al verso f - sempre dieresi se prima tonica in fin di verso. g - differenze da lat. suavis, consuetus e da ingl. dwell. 12 - parole dotte come coniuge, obietto, ecc. (da i semivocale lat. ) Dubbio se dittongo o semivocale. Ragioni: a - dieresi illecita. 13 - parole dotte con i intervocalica (Troia, Traino ecc.) Dittongo (caso simile al n.7) - 4 - Ragioni: a - dieresi illecita b - Pompei con i semplice dal lat. Pompeii c - sineresi Pompeio d - suono diverso dal lat. e romanesco (che hanno semivocale) e dal greco, ingl. e ted. che hanno dittonghi discendenti (v. n. 7) 14 - parole di fonetica popolare con metatesi di i (aria, astio, avorio, balia, conio, madia, olio, pania): sineresi con medesime regole delle parole dotte (n.8) 15 - ogni combinazione di vocali, nessuna delle quali sia i ne’ u : Regole a - sineresi o dieresi se ambe pretoniche: Beatrice, Paolina, b - sempre dieresi se seconda tonica: leone, beato. c - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se prima tonica (Teseo, Paolo) in mezzo al verso. d - sempre dieresi, se prima tonica in fin di verso e - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se ambedue posttoniche (purpureo) in mezzo al verso f - sempre dieresi, se ambedue posttoniche in fin di verso g - notare differenze tra bea, boa (dissillabe in pausa) e l’ingl. bear, boar (con dittongo) 16 - ai, ei, oi, ui (eccetto i casi del n. 10) Regole simili al n. 15 a - sineresi o dieresi se ambe pretoniche: deitade b - sempre dieresi se seconda tonica: eroina. c - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se prima tonica (andai, Nereide) in mezzo al verso d - sempre dieresi se prima tonica in fin di verso: andai rima con fornai e - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se ambedue posttoniche in mezzo al verso (purpurei). - 5 - f - sempre dieresi se ambedue posttoniche in fin di verso g - notare differenza tra finale piane d’andai, fornai ecc. e voci tedesche Lorelei, Konditorei ecc. con dittongo. Comparare it. mai, sai, dei, poi (dissillabi) e ingl. my, sigh, day, boy, (monosillabi). Comparare it. cui, fui (lunga + breve) e lat. cui (dittongo), fui (due lunghe nel lat. arcaico, breve + lunga nel lat. classico). 17 - au, eu. Regole simili ai n. 15 e 16. a - sineresi o dieresi se ambedue pretoniche: pauroso, aurora, Europa. b - sempre dieresi se seconda tonica: paura c - per lo piu’ sineresi, talvolta dieresi se prima tonica (Laura) in mezzo al verso d - sempre dieresi se prima tonica in fin di verso. e - comparare it. lauda, causa (sdruccioli) e ingl. louder, cows (con dittongo) 18 - Vocali doppie aa, ee, ii, oo, uu (Nausicaa, creerebbe, purpuree, plenilunii, Antinoo, duumviro ecc). Regole simili ai nn. 15, 16 e 17. Ma quando si fa sineresi il risultato e’ una sola vocale lunga. 19 - Nessi gn e gli. Si pronunziano ( ) e ( ) con doppia consonante seguita da semivocale. Prove: a - la dieresi e’ illecita presso i migliori b - il suono composto resta immutato nel plur. e nella 2 pers. in -i (bagni, figli) 20 - Nessi cia, cio, gia ecc. In moltissimi casi l’i e’ mero segno grafico per indicare il suono palatale della cons. (mangiare ecc.) PRINCIPALE ERRORI CHE HO INTESO DI CONFUTARE: 1) L’errore di chi confonde il dittongo colla sineresi e peggio colla sinalefe e coll’elisione. Si tratta di fenomeni diversi, che obbediscono a regole diverse. 2) Non bisogna neanche confondere la fognatura, che fa posizione e puo’ essere breve (abiete), colla sineresi, che non fa posizione ed e’ sempre lunga - 6 - 3) Che il dittongo consista dell’unione di semivocale e vocale. Ma considerando dittonghi invidus, coniugis, voluntas anderebbe all’aria tutta la prosodia latina. 4) Che una delle vocali del dittongo sia sempre u od i. Ma il lat. caedo, poena, l’inglese boar, bear non hanno ne’ u, ne’ i. 5) Che i dittonghi siano gli stessi in tutte le lingue. Ma ae e’ ditt. in lat., non in greco. Viceversa ai e’ dittongo in greco, non in latino. 6) Che dei dittonghi si possa far dieresi. Nei dittonghi veri (lat. taurus, it. buono, ingl. house, ted. drei) la dieresi e’ impossibile. 7) Alcuni grammatici sono sbadatissimi. P.e. il Goidanich distingue tre sorta di suoni (vocali, semivocali e consonanti), definisce il dittongo come l’unione di due vocali, e definisce la semivocale come il primo elemento del dittongo. Cita la stessa parola (Laura) come esempio di dittongo e come esempio di sineresi di parola normalmente trisillaba. 8) Alcuni grammatici menzionano i trittonghi: miei, giuoco, lacciuolo. Ma miei e’ bisillabo, e l’i di giuoco e di lacciuolo e’ muto. 9) Che l’i e l’u dei dittonghi sian piu’ chiusi dell’i e dell’u sillabici. Ma in italiano a me paiono identici (fuori, fluoro). Anche in inglese mi paiono identici. In francese la prima vocale di loi e’ piu’ aperta di quella di loua. 10) Che la pronunzia womo, swocero sia corretta. Essa e’ propria di quei dialetti che dicono il womo, lo swocero, non del toscano letterario. 11) Che l’uso di dire l’uomo, il suocero sia dovuto all’influenza della grafia. Ma l’uso dell’articolo fu fissato prima della grafia. Oltre a cio’, gli antichi scrivevano huomo e non distinguevano graficamente l’u dal V. Noi diciamo l’uomo, il volto conforme alla fonetica toscana. 12) Che i poeti storpino le parole a capriccio. Le voci poetiche sono in generale arcaismi (veggio), dialettismi (saria) gallicismi (giuggia), latinismi (lauro), che divenuti ormai rari e disusati in prosa, sono ancora adoperati dai poeti per - 7 - ragioni d’eleganza, di metro, d’eufonia ecc. Non sono inventate a capriccio. Nel nostro campo, loco e’ latinismo o dialettismo; luogo e’ voce normale toscana; aura e’ latinismo (quando la sinizesi non sia giustificabile); aüra e’ pronunzia normale toscana. 13) Che la parola italiana abbia sempre lo stesso numero di sillabe che la latina da cui deriva. Ma l’italiano talvolta aumenta una sillaba: Paolo, cui, soave, mansueto,; talaltra ne cala una: abbia, vigna, parola, gerarchia, tacque. 14) Che le parole come Italia ecc. abbiano il dittongo o peggio la semivocale. 15) Che le parole come fornaio abbiano la semivocale. 16) Che le parole come andai, fornai, vendei, musei, abbiano il dittongo. 17) L’uso di scrivere oli, Antino, Nausica, alcol, eburne ecc. non e’ da lodare, in prosa, sebbene non senza esempi poetici. In prosa i migliori usano olii, Antinoo, Nausicaa, alcool, eburnee ecc. 18) Scansioni non lodevoli, notate nei poeti moderni: persuade, esempii, ampïa, tempïo, taglïa, lascïa.

Analisi del Paternostro

ANALISI DEL PATERNOSTRO
MARCO TREVES*


In questa sala eminenti dotti cristiani hanno commentato i Salmi o altri scritti di ebrei. Sia lecito dunque a un ebreo commentare un brano del Nuovo Testamento. C'è un'altra ragione più specifica. Gesù fu ebreo, nacque da una famiglia di ebrei, fu circonciso, visse sempre da buon ebreo, osservava il Sabato, mangiava cascer, solennizzava le feste (sebbene i Vangeli parlino della sola Pasqua), recitava lo Scema lsrael (Marco XII, 29). La sua vita terrena appartiene alla storia degli ebrei, ma dopo la morte egli diventò l'oggetto delle speculazioni teologiche dei cristiani di varie chiese: cattolici, marcioniti, gnostici, ariani, nestoriani, monofisiti, e poi luterani e calvinisti, seguaci di Bultmann e di Bonhoeffer, ecc.. Di tutta questa vita postuma stasera noi non ci occuperemo affatto. Lasciamo stare la teologia. Io vi parlerò come storico, e non come teologo. Ho rispetto e simpatia per quei teologi i quali con le loro interpretazioni omiletiche dei testi sacri talvolta fanno acute osservazioni sulla vita d'oggi e porgono consigli eccellenti. Ma stasera mi occuperò esclusivamente di ricercare il significato originario del Paternostro, secondo la lingua, le situazioni e la mentalità di quei tempi. Lo storico scrupoloso non deve lasciarsi sedurre dalle preoccupazioni apologetiche dei teologi, né dalla tentazione di deformare i fatti a scopo di edificazione.
Ho imparato da prima gli episodi della vita di Gesù dalle bellissime pitture dei nostri Musei: le pitture del Beato Angelico, di Gentile da Fabriano, del Perugino, di Raffaello, ecc. - incantevoli, poetiche, idilliache, con verdi giardini, colline come quelle di Firenze, con figure eleganti e sorridenti, con quell'atmosfera di pace. Quando mi diedi a studiare i documenti dell'epoca mi accorsi che la realtà storica era diversa: il paesaggio brullo e stepposo, lacrime e sangue. Uno sfondo tragico paragonabile forse all'Algeria di qualche anno fa. Da una parte un popolo oppresso, i Giudei che sognavano l'indipendenza. Insurrezioni e rivolte frequenti. Dall'altra i Romani, gli sfruttatori, che non esitavano a crocifiggere a migliaia per volta gli uomini validi e a vendere le donne e i bambini ai mercanti di schiavi. Qualche volta crocifiggevano anche le donne e i bambini, come fece il buon Tito "delizia del genere umano". C'erano insurrezioni di partigiani - i Romani li chiamavano banditi - e alcuni erano forse masnadieri, altri erano forse santi martiri. Oggi non ne conosciamo neppure i nomi. C'erano quelli che predicavano la sottomissione - alcuni per interesse, i ricchi che non amano le rivoluzioni, i pubblicani appaltatori d'imposte che s’impegnavano a fornire una somma fissa al fisco romano e s'industriavano di estorcere quanto più potevano dalle sventurate popolazioni - ma altri in buona fede, sapendo che lo stato romano era invincibile e che ogni resistenza avrebbe provocato maggiori sventure. C'erano anche i mistici che s'illudevano che Dio avrebbe liberato con un miracolo il popolo fedele.
In quest'atmosfera di oppressione e di sangue viveva Gesù. Questo é lo sfondo del Vangelo. Le varie tendenze alle quali ho accennato si riflettono negli scritti dei vari redattori del Nuovo Testamento.

Veniamo dunque al Paternostro. Di questa bellissima preghiera abbiamo quattro versioni: quella di Matteo VI 9-13, quella di Luca XI 2-4, quella della Didaché e quella di Marcione. Ma quella di Marcione è alterata per conformarla alla sua teologia. Quella della Didachè è quasi uguale a quella di Matteo. Tra le due rimanenti, la versione di Matteo mi sembra più primitiva che la versione di Luca, contrariamente a quanto pensano molti critici tedeschi. Ne daremo più avanti qualche prova.
Il Paternostro è tutto composto di formule ebraiche. E' esente da ogni accenno ai dogmi e alle formule caratteristiche del cristianesimo. Questo mi pare un buon indizio della sua autenticità. Leggendo i commenti dei Padri della Chiesa cristiana e dei moderni teologi cattolici e protestanti si nota come spesso sono sconcertati da un linguaggio che non è il loro e che non capiscono.

πατηρ(padre). E' antica e costante usanza ebraica di considerare Iddio come nostro Padre e gli Israeliti come Suoi figli. Ve n'è una ventina d'esempi nell'Antico Testamento: Esodo IV, 22; Deuteronomio XIV, 1; XXXII,6, 18, 19, 20; Salmo LXXIII, 15; Isaia I, 2; XXX, 1; LXIII, 16; LXIV, 7; Geremia III, 4,19; IV, 22; XXXI, 9, 20; Osea I,10; Ezechiele XVI, 20, 21: Malachia I, 6; 11,10.
Citiamo il versetto del Deut. XIV, 1: "Voi siete i figli del Signore Iddio vostro", e quello di Geremia III, 19 "Mi chiamerete: Padre mio".
Vi sono altri esempi nei libri ebraici non canonici: Ben Sira XXIII 1, 4; LI, 10; Sapienza Il, 16; XIV, 3; Tobia XIII, 4; III Maccabei V, 7; VI, 8; Giubilei I, 24, 25, 28; Testamento di Giuda XXIV, 2; Testamento di Levi XVIII, 6; Hodayot IX, 35-36; Nei detti dei Tannaim, Akiba (Abot III, 18; Yoma 85; Taanit 25) e Jehuda ben Tema (Abot V, 23).
Vediamo che Gesù ben Sira e Gesù Nazareno, invocando Dio come Padre, si conformarono all’esortazione di Geremia. E Dio è invocato come padre nelle preghiere quotidiane: nell'Amidà (benedizioni V e VI) nell'Ahabah, nel Col berue e in molte altre. Nella preghiera mattutina è invocato più volte proprio con le parole Abinu shebashamaim "Padre nostro che sei nei cieli".

ημων "di noi". Chi sono questi "noi"? Nei passi della Bibbia citati di sopra, Dio è chiamato Padre degl'lsraeliti. Veramente, secondo la dottrina ebraica, Iddio si potrebbe chiamare Padre universale per due ragioni: I) perché è il Creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che v'è (Genesi I-II, Esodo XX, 11; XXXI, 17; II Re XIX, 15; Nehemia IX,6: Salmi CII, 25; CXV, 15; CXXI, 2; CXXIV, 8; CXXXIV, 3; CXLVIII, 6; Isaia XLII, 5; XLV, 18; Geremia XXXII, ); II) perché veglia amorosamente non solo sugli ebrei, ma su tutti i popoli, sugli egiziani e sugli assiri (Isaia XIX, 25), sugli etiopi, sui filistei e sugli aramei (Amos IX, 7) e anche sugli animali (Giobbe, XXXVIII, 39-41; Salmo CXLVII, 9) e ama tutte le sue creature (Salmo CXLV, 9, 16; Sapienza di Salomone XI, 24-26). Ma sebbene Iddio si possa considerare come il Padre di tutti gli uomini e di tutte le creature, esplicitamente non è chiamato se non padre degli Israeliti.
Veniamo ai Greci. Per Omero Zeus è padre di uomini e di dei (Iliade V, 426). Certo è padre in senso fisico, ché dai suoi molteplici amori con dee, con ninfe e con donne mortali, Zeus ebbe numerosa prole. La formula di Omero è ripetuta da altri poeti. Ma Platone (Timeo) più filosoficamente chiama Dio "Fattore e Padre dell'universo". Filone, il filosofo ebreo un poco più anziano di Gesù, adotta la formula di Platone (De opificio mundi 13, Legatio ad Gaium XVI, 119). Dunque Filone, prima di Gesù, rende esplicita la dottrina che nella Bibbia era implicita.
Pare probabile che Gesù usasse la parola "padre" nel senso nazionale dell'Antico Testamento. Il Vangelo di Matteo non dice neppure ημετερε "nostro", ma dice proprio ημων "di noi" "di noialtri", dunque "padre di noialtri ebrei".
L'autore del Terzo Vangelo e degli Atti, letterato elegante, spirito irenico, novellatore piacevole, ma non sempre storico scrupoloso, come negli Atti cerca di conciliare Pietro con Paolo, nascondendo le dispute che conosciamo dalle epistole, così nel suo Vangelo cerca di conciliarsi i Gentili, tanto più che era un Gentile egli stesso. Perciò cancella l'ημων e scrive il semplice πατηρ. Dio non è più padre dei soli Israeliti, è padre di tutti gli uomini. Il pensiero di Luca è chiarito dalla genealogia. Mentre Matteo I, 1-16 risale fino ad Abramo per dimostrare che è un vero Israelita; Luca III, 23-38 risale fino ad Adamo, per dimostrare che Gesù, in quanto figlio d'Adamo, è figlio di Dio.
Neanche Luca, però, assurge all'universalismo di Platone e di Filone.
Il Quarto Evangelista, furioso antisemita che probabilmente subì l'influenza degli gnostici o di Marcione, spesso tenta di confutare i Sinottici. Per lui gli Ebrei non sono i figli di Dio nè d'Abramo. Sono i figli del Diavolo (Giovanni VIII, 39-44). Gesù non ha più genealogia. E' l'unigenito figlio di Dio (Giovanni I, 14, 18; III, 16-18). E il Paternostro è omesso da questo Vangelo.
Alcuni commentatori (O. Luzzi, J. Jeremias) pensano che nel Giudaismo Dio fosse Padre del popolo, ma non dei singoli individui. Ma non è così. Un profeta che non apparteneva al popolo ebraico per nascita, poiché era un proselita, scriveva: "Tu sei il Padre nostro, benché Abramo ci ignori e Israele non ci riconosca. Tu, o Eterno, sei il Padre nostro" (Isala LXIII, 16). Geremia e Ben Sira adoperano l'espressione "Padre mio" col pronome di prima persona singolare. E il Salmo LXVIII, 5 dice che Dio è il Padre degli orfani.

ο εν τοις ουρανοις "che sei nei cieli". Nel greco ordinario ουρανος "cielo" è singolare. In ebraico shamaim e in aramaico shemaya sono plurali. Si tratta di una peculiarità linguistica senza riferimento a dottrine astronomiche. La sua presenza nel nostro testo greco dimostra che questo è tradotto da un originale semitico.
Secondo la dottrina ebraica, Iddio è in ogni luogo: "Egli riempie il cielo e la terra" (Geremia XXIII, 24).

Se io salgo in cielo, Tu vi sei,
se scendo nello Sheol, eccoti là!
Se prendo le ali dell'alba
e dimoro nell'estremità del mare,
anche colà mi condurrà la tua mano
e la tua destra mi sosterrà. (Salmo CXXXIX, 8-10)

E così anche Deut. IV, 39; Giosué II, 11; II Re VIII, 27; Isaia LXVI, 1. Ma in altri versetti biblici si dice che Dio sta nei cieli (Deut. XXXIII, 26;I Re VIII, 30, 32, 49; Giobbe XXII, 12; Salmi II, 4; CIII, 19; CXIII, 5; CXV, 2-3, 16; CXXIII, 1; Eccles. V, 2; Daniele Il, 28).
Abbiamo già osservato che la frase "Padre nostro che sei nei cieli" è usata dai dottori della Mishnà e più volte nelle preghiere ebraiche.

Aγιασθητω το ονομα σου "sia santificato il tuo nome". Il verbo αγιαζω non esiste nel greco classico né nei papiri pagani. Fu inventato dai Settanta per tradurre l'ebraico qadash. Questa è una novella prova che ci troviamo di fronte a una traduzione, da spiegare con la fraseologia ebraica, incomprensibile a chi è stato educato in ambiente diverso. Intatti anche nel nostro Kaddish si dice "Itgaddal weitqaddash shemey rabba" sia magnificato e santificato il suo gran nome". E nella preghiera mattutina del Sabato: Shimchà Adonai Elohenu itqaddash "il tuo nome, o Eterno Dio nostro, sia santificato".
Che significa "santificare il nome"? Per il Pichenot significherebbe astenersi dalla bestemmia, dai giuramenti falsi, ecc.. Ma così si restringerebbe troppo la portata della frase. Più giusto mi pare Sant'Agostino: "Quando diciamo: Sia santificato il tuo nome, facciamo sapere che desideriamo che il suo nome, il quale è sempre santo, sia considerato santo anche fra gli uomini, cioè non sia spregiato".
Nel linguaggio biblico qadash "santificare" è il contrario di halal "profanare". Dunque santificare il nome significa preservarlo dalle profanazioni. Il santo nome è profanato quando gli Ebrei commettono atti d'idolatria o altri gravi peccati (Levitico XVIII, 21; XIX, 12; XX, 3; XXI, 6; XXII, 32; Ezechiele XLIII, 7, 8; Amos Il, 7) e quando il popolo il popolo ebraico è esiliato e la sua religione è insultata (lsaia LII, 5; Ezechiele XXXVI, 20-24; XXXIX, 7, 25; Malachia 11-12; Salmo CXI, 9).
Si può congetturare che Gesù pensasse a un fatto recente. Ponzio Pilato aveva offeso i sentimenti dei pii ebrei introducendo le insegne delle legioni nella Città Santa (Flavio Giuseppe, Antichità XVIII, iii, 1; Guerra II, ix, 3); Le insegne erano gli dèi delle legioni e i soldati offrivano loro sacrifizi (Flavio G., Guerra VI, vi, 1; Svetonio, Caligola XIV, Tacito, Annali I, 39; Tertulliano, Apologetico XVI, 162). Perciò la presenza delle insegne nella Città Santa era una profanazione del nome. I giudei supplicarono Pilato di farle togliere di lì, ma questi fece circondare i supplici dai soldati, minacciandoli di morte immediata. Allora essi si gettarono in terra, scoprendo il collo, pronti a lasciarsi tagliare la testa piuttosto che consentire all'atto profano. E Pilato allontanò le insegne.
Nell'uso ebraico più tardo la "santificazione del nome" era il martirio sofferto per restare fedeli alla Torà. Il Sifra (Emor XIII) dice: "lo vi ho tratti fuori dall'Egitto a patto che siate pronti a sacrificare la vita, qualora lo esiga l'onore del mio nome".

ελθατω η βασιλεια σου "venga il tuo regno". Questa frase allude al nucleo centrale della predicazione di Gesù. "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino" (Marco I, 15). E' questo I'euangelion, la buona novella.
La parola italiana regno (come l'ebraico malkut, il greco basileia, il latino regnum) può significare tanto un territorio governato da un re come il periodo durante il quale egli regna. Invece l'inglese e il francese distinguono Kingdom, royaume (il territorio) e reign, règne (il periodo). Ma i traduttori inglesi e francesi della Bibbia dimostrano incoerenza e confusione nel rendere questa parola.
Il "regno di Dio" nella Bibbia è sempre un periodo, mai un territorio. Gesù e altri Giudei del suo tempo aspettavano che Dio cominciasse a regnare, non già che continenti ed isole mutassero posto.
Il primo regno di Dio era stato al tempo dei Giudici. Gedeone rifiutò l'invito a farsi re, per non togliere il regno a Dio (Giudici VIII, 22-23). Quando gli anziani volevano ungere re Saul, Iddio li rimproverò, per mezzo del profeta Samuele, perché l'avvento di un re mortale avrebbe segnato il ripudio del Sovrano celeste (I Samuele VIII, 4-7; X,18-19; XII, 12).
Da questi passi si ricava: 1) che nell'opinione dei sacri autori la monarchia umana e la monarchia divina erano incompatibili; 2) che era tradizione che Iddio fosse il re d'Israele al tempo dei Giudici; 3) che il regno di Dio cessò con l'incoronazione di Saul.
Dopo Saul ci furono i re della dinastia davidica. Poi la Giudea fu soggetta ai re Babilonesi, ai re Persiani, ad Alessandro Magno, ai Lagidi, ai Seleucidi. Finalmente nel 167 i Giudei si ribellarono ai re stranieri. Ma non richiamarono al trono la famiglia davidica. Invece instaurarono il secondo regno di Dio. A questo periodo assegno i Salmi che proclamano Adonai malakh "l'Eterno ha cominciato a regnare" (Salmi XLVII, XCIII, XCVI, XCVII, IC). Il secondo regno di Dio durò un paio d'anni (dal 164 al 162). Seguì un ventennio sotto i re greci (162- 140). Poi un terzo regno di Dio dal 140 al 104. Poi i re Asmonei, il dominio romano, Erode, Archelao. Nel 7 dell'Era Volgare i Romani ridussero la Giudea a provincia, imposero tasse e mandarono Quirino a fare il censimento dei patrimonii. Agli Ebrei parve di esser ridotti in schiavitù. Tuttavia il Sommo Sacerdote Joazar li persuase a rassegnarsi e a dichiarare i loro patrimonii, a inchinarsi ai voleri di Cesare. Ma qualcuno non si rassegnò e insorse. Giuda gaulonite, della città di Gamala, detto anche Giuda di Galilea istigò il popolo alla ribellione. Diceva che questa tassa non era altro che imposizione di schiavitù ed esortò i Giudei a proclamarsi indipendenti e a non riconoscere altro padrone che Dio. Chiamare padrone un uomo, fosse pure Augusto, era tradire Iddio. I suoi seguaci, piuttosto che accettare Augusto come sovrano, subirono in gran numero la tortura e il martirio. E condussero una lunga e sanguinosa guerriglia di partigiani (Flavio G., Ant. XVIII, 1, 6; Guerra II viii, 1).
Ma accanto a coloro che volevano instaurare il quarto regno di Dio con la violenza (Matteo XI viii, 1) c'erano altri che l'aspettavano con tranquilla fiducia, come Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava il regno di Dio (Marco XV, 43). Non mi pare probabile che un consigliere, forse membro del Sinedrio, partecipasse attivamente alla guerriglia.
Anche per Gesù il regno di Dio era nel futuro. Lo dimostrò Johannes Weiss, rivoluzionando la teologia tedesca. Ma del resto risulta evidente dai Vangeli (Marco IX,1 = Luca IX, 27; Marco XIV, 25 = Matteo XXVI, 29 = Luca XXII, 16-18; Matteo VIII, il; Matteo XXII, 41) e dallo stesso Paternostro.
Il Reimarus, il più antico e uno dei più intelligenti fra i critici del Nuovo Testamento, osserva che il succo della predicazione di Gesù è "Pentitevi, ché il regno di Dio è vicino". Poiché Gesù non spiega mai questa espressione, bisogna supporre che l'adoperasse nel significato usuale degli Ebrei del suo Tempo.
Possiamo noi sapere come si figuravano gli Ebrei di quella generazione il regno di Dio?
Cent'anni dopo il Reimarus, cent'anni fa, uno studioso italiano, Monsignor Ceriani, scopriva nella Biblioteca Ambrosiana di Milano uno scritto (l'Ascensione di Mosé) il quale fu composto proprio al tempo di Gesù. Questo scritto contiene una descrizione del regno di Dio.
Eccola:

E allora comparirà il Suo regno per tutto il Creato.
E allora l’Accusatore avrà fine,
e la tribolazione sarà tolta via con lui.
E saranno empite le mani dell’Angelo
che è stabilito nel sommo dei Cieli,
il quale subito li vendicherà dei loro nemici.
Ché il Celeste sorgerà dal trono del Suo regno
e uscirà dalla Sua santa dimora
con indignazione e ira pei Suoi figlioli.
E la terra tremerà: sarà scossa fino ai suoi confini,
e le montagne saranno abbassate e squassate
e le valli saranno alzate.
E il sole non farà luce
e le corna della luna saranno oscurate e rotte,
e tutta la luna si muterà in sangue,
e l'orbita delle stelle sarà sconvolta,
e il mare cadrà nell'abisso.
Le sorgenti dell’acque si seccheranno
e i fiumi inaridiranno.
Perché il Dio Altissimo, l'Eterno,
il Dio unico si leverà
e si manifesterà per punire le nazioni
e per distruggere i loro idoli.
Allora sarai felice tu, o Israele,
e salirai sul collo e sull'ali dell'aquila
e i giorni del tuo dolore termineranno.
E Dio ti esalterà,
e ti solleverà fino al Cielo delle stelle
al luogo della Sua dimora.
Allora tu guarderai dall'alto
e vedrai i tuoi avversarii sulla terra
e li riconoscerai e t'allegrerai,
e renderai grazie e riconoscenza al Creatore.

Dunque per questo antico poeta il regno di Dio consisteva nella liberazione d'Israele, accompagnata da terremoto, oscuramento del sole, sanguinare della luna, ecc.. Naturalmente non è detto che tutti i Giudei se lo figurassero nell'identico modo, ma è degno di nota che anche nel Nuovo Testamento non manchino accenni alla sperata liberazione di Israele (Marco X, 42-43 = Luca XXII, 25-26; Luca I, 74; Atti I, 6) e a fenomeni simili a quelli suddescritti (Marco XIII, 24-27 e paralleli; Atti II, 18-21; Apocalisse VI, 12-17)
Anche la frase 'Venga il tuo regno" ha analogie nelle preghiere ebraiche. Il Kaddish: Veiamlikh malkhuté "e regni il suo regno" (e seguita: durante la nostra vita, nei giorni nostri, durante la vita di tutta la famiglia d'Israele.) E l'Amidà (benedizione Il): "Fa tornare i nostri Giudici come in antico e i nostri consiglieri come una volta e regna sopra di noi tosto, Tu solo con fedeltà, con misericordia, con rettitudine e con giustizia".
Nell' Antico Testamento il regno di Dio era limitato alla Palestina o esteso a tutta la terra? I versetti Giosuè III, 11; Salmo XCVII, 5 e Zaccaria XIV, 9 forse non sono chiarissimi, perché ha-arez potrebbe significare così "la terra" come "il paese". Ma nel Salmo XLVII, 8 ( Dio regna sulle nazioni), nel LXXXII, 8 (tutti i popoli), nel
XCVI, 13, nel XCVII, 1 (le grandi isole), nel XVIII, 9 (il mondo, i popoli), il regno è universale. Ed è universale nell'Assunzione di Mosé e nell'Alenu.

Marcione e probabilmente anche l'autore del terzo Vangelo, essendo fedeli sudditi dell'Impero romano, non potevano pregare per la venuta d'un regno diverso. Perciò alla frase sovversiva ne sostituirono una innocua: "Venga il tuo spirito santo su di noi e ci purifichi".

γενηθητω το θελημα σου ως εν ουρανω και επι γης. "Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra". Chi fa la volontà di Dio in cielo? Gli angeli. Lo dice il Salmo CIII, 20-21:
Benedite il Signore, o suoi angeli,
obbedienti al suono della sua parola.
Benedite il Signore, tutti voi, o eserciti suoi,
suoi ministri che fate la sua volontà.
E in terra? I giusti. perché "i giusti conoscono la volontà" (Proverbi X, 32). Il Salmo XL, 8:
Insegnami a fare la tua volontà,
perché tu sei il mio Dio.
E il Salmo CXLIII, 10:
io mi compiaccio di fare la tua volontà, o mio Dio,
Sì la tua legge è nel mio cuore.

Anche alcune preghiere ebraiche contengono un parallelo fra il cielo e la terra. Il Kaddish: Colui che fa la pace nelle sue altezze, nella sua misericordia conceda la pace a noi e a tutto Israele. E Rabbi Eliezer (verso il 90 dell'E.V.) pregava: Fa' la tua volontà nell'alto dei cieli e dà pace sulla terra a coloro che ti temono (Berakot Tosefta 3, 7). E viene in mente il canto degli angeli "Gloria a Dio nelle altezze e pace in terra agli uomini dei quali Egli si compiaceva" (Luca II, 14).

τον αρτον ημων τον επιουσιον δος ημιν σημερον. "Dacci oggi il nostro pane “επουσιον”. Questa parola è un "apax legomenon" ed è di incerta interpretazione. Menzionerò le principali congetture.
Alcuni traducono "dacci oggi il nostro pane quotidiano". Bellissima interpretazione, conforme alla preghiera nei Proverbi XXX, 8:
Non mi dare nè povertà nè ricchezza
Porgimi il pane che è la mia porzione.

Se non che επιουσιον non può significare "quotidiano". Quotidiano in greco si dice καθημερινος o εφημερος Ambedue queste parole s'incontrano nel N. T. (Atti VI,1 e Giacomo II, 15). Perché l'Evangelista, avendo a disposizione due ottime parole usuali, ne avrebbe inventata una terza incomprensibile?
Altri interpreti traducono "per domani". E derivano επιουσιον da επιουσια "il giorno seguente". Abbiamo dunque un'etimologia possibile. E anch'io preferisco il pane un po raffermo. E la previdenza è raccomandata nella Bibbia (Proverbi VI, 6-8):
Va' alla formica, o pigro;
considera i suoi costumi e sii savio,
la quale .... si provvede di pane nell'estate,
e raccoglie il cibo nella stagione delle messi

Ma non sempre la previdenza fu lodata dagli Ebrei. Rabbi Eliezer (tempo di Domiziano) diceva: Chiunque ha pane nel paniere e domanda: Che cosa mangerò domani? è un uomo di poca fede (Sota 48). Pare che anche Gesù la pensasse come R.Eliezer: "Non pensate alla vita vostra, che mangerete e che berrete .... Non vi preoccupate dunque per il domani" (Matteo VI, 25-34) e additava ad esempio gli uccelli del cielo; anziché la formica, tanto ammirata dal poeta dei Proverbi e dal La Fontaine. Perciò è poco verosimile che Gesù consigliasse di chiedere il pane per il giorno dopo.
Altri interpreti derivano επιουσιον da επι (sopra) e υσια (sostanza) e traducono "soprassostanzialet', cioè spirituale, metaforico. Anche quest'immagine del pane spirituale è ebraica. Isala LV, 1-2:
O voi tutti che avete sete, venite all'acqua.
E voi che non avete denaro, venite, comperate e mangiate.
Perché spendete denaro per cose che non sono pane?
E i vostri guadagni per cose che non saziano?

E nei Proverbi IX, 5 la Sapienza chiama:
Venite, mangiate del mio pane
E bevete del vino che vi ho mesciuto.
E Ben Sira XV, 1-3:
L'uomo che teme il Signore farà questo.
Colui che si attiene alla Torà l'otterrà.
Ella gli verrà incontro come una madre,
come una giovane sposa l'accoglierà.
Lo nutrirà col pane dell'intelligenza
e gli darà da bere l'acqua della dottrina.
In questi versi la Sapienza è probabilmente la Torà (cfr. Ben Sira XXIV, 22) e il cibo e le bevande sono i suoi frutti salutiferi. Mi par poco verosimile che Gesù pregasse per ricevere la Torà. Ma le difficoltà principali sono linguistiche. Esiste la parola "soprassostanziale" in aramaico? E supponendo che esistesse, sarebb'essa una definizione esatta della Torà, della Grazia o del soccorso divino chiesto dai primi discepoli? E sarebbe naturale questo termine filosofico in bocca a semplici pescatori di scarsa istruzione? Oltre a ciò, un composto di υσια sarebbe επουσιον anziché επιουσιον. Il prefisso επι elide sempre la finale in composizione con la parola che comincia per vocale, a meno che non sia impedito il digamma. Dunque nessuna delle supposte congetture pare accettabile. Non saprei più cosa proporre. Forse un'emendazione del testo. Leggendo επιουσιον "per l'esistenza, per la vita" il senso correrebbe bene. υσια nel senso di vita, esistenza è documentato in Platone, Sofista 232.
Si osservi ancora che la presenza di questa parola rarissima così nel testo di Matteo come in quello di Luca dimostra che ambedue derivano da un'unica fonte greca e non sono traduzioni indipendenti dall'aramaico.

και αφες ημιν τα οφειληματα νηων, ως και υμεις αφηκαμεν τοις οφειλεταις ημων. "Rimettici i nostri debiti, come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori"
Qui c'è qualche divergenza fra i Vangeli. Matteo ha la parola "debiti", Luca la parola "peccati". La remissione dei debiti ogni sette anni era prescritta dal Deuteronomio XV, 1-11. Ma poiché questa disposizione, adatta per i prestiti caritatevoli dell'età più antica, produceva gravi inconvenienti nelle operazioni commerciali di un popolo più evoluto, Hillel l'aveva abolita pochi anni prima del tempo di Gesù. E' probabile che la predicazione di Gesù e dei primi Cristiani avesse anche un contenuto sociale, che essi odiassero i ricchi (Luca VI, 20-26; XVI, 19-31; XVIII, 22-25; Giacomo I, 9-11; II, 5-7; V, 1-6) e che praticassero la comunione dei beni (Atti II, 42-45; IV, 32-37). Ma non pare che rimettessero i debiti. Anzi pare che qualche volta fossero rapaci ed esosi nell'esigerli (Atti V, 1-6).
E poi, quali sono i debiti dell'uomo verso Dio? Non si può certo pregare Dio d'essere esentati dall'adempiere ai comandamenti né d'essere dispensati dai voti. Perciò par meglio intendere i peccati. E' stato osservato che la parola aramaica hobayya può valere "debito" e "peccato". Matteo ci dà la traduzione letterale, Luca interpreta e chiarifica per il lettore greco; (Si deve ricordare tuttavia che le due versioni del Paternostro derivano probabilmente da una fonte comune Q scritta in greco e non sono traduzioni indipendenti dall'aramaico). Vi sono altri passi dei Vangeli (Matteo XVIII, 23-35, Luca VII, 37-39) nei quali i debiti sono figura dei peccati.
Molti precetti dell'A. T. impongono di perdonare torti ricevuti (Genesi XLV, 4-15; L, 15-21; Esodo XXIII, 4-5; Levitico XIX, 17-18, 34; I Samuele XXV, 28-34; Giobbe XXXI, 29: Salmo XVIII, 24-25; Proverbi XX, 72; XXIV, 29; XXV, 21-22).
Molte preghiere chiedono a Dio di perdonare i peccati degli uomini (Esodo X, 17; XXXII, 32; XXXIV, 7-9; Numeri XIV, 19; I Re VIII, 30, 34, 50; Salmi XXV, 11, 18; XXXII, 5; LI, 2; LXXIX, 9; LXXXVI, 3-5; CXXX, Amos VII,2; Daniele IX, 19).
La connessione tra i due concetti s'incontra in Ben Sira XXVIII, 2:
Perdona il torto che ti ha fatto il vicino
E quando pregherai i peccati saranno perdonati.

Sifré sul Deuter. XIII, 18: "Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te".
Si può ricordare anche Luca VI, 36: "Siate misericordiosi, come ancora il Padre vostro è misericordioso."

και μη εις ενεγκης ημας εις πειρασμον, si suol tradurre "non c'indurre in tentazione". Ma il Cristiano potrebbe domandare: E' Dio o il Diavolo colui che induce in tentazione? Infatti un antico Cristiano, il quale forse non aveva capito il Paternostro, protesta: "Che nessuno dica, quando è tentato: io sono tentato da Dio. Perché Dio non può essere tentato dal male, nè può Egli tentare alcun uomo. Ma l'uomo è tentato quando è sedotto dalle sue voglie. (Epistola di Giacomo I, 13-14). Ma altri osservano che "tentazione" è traduzione inesatta di πειρασμον. il Tommaseo traduce: "Non ci recare in cimento". E il Pernot: "Non ci esporre alla prova". Infatti non credo che Gesù alludesse alle tentazioni del bambino che trova la scatola delle caramelle e dell'adulto che trova a portata di mano il denaro della ditta o la moglie del collega. Si tratta di cosa ben più tragica. In tempi di oppressione, di guerriglia, di congiura, coloro che speravano che il regno di Dio sostituisse il dominio romano, erano sempre in pericolo d'essere arrestati, torturati e costretti a rivelare i progetti, a denunciare i camerati, ecc.. Perciò era naturale il timore d'essere esposti alla prova.
Citerei il detto attribuito a Gesù da Origene (In Jerem. hom. lat. XX, 3): "Chi è vicino a me è vicino al fuoco. Chi è lontano da me, è lontano dal regno."
Marcione, la Vetus Latina, S. Cipriano e S. Agostino emendano e traducono: "Non permettere che siamo indotti in tentazione". E il padre Tonna - Barthet: "non ci lasciar soccombere alla tentazione". Ma così si discostano dal testo.

αλλα ρυσαι ημας απο του πονηρου. Gran discussione su questa parola πονηρου. E' maschile o neutro? E' il Maligno o il male? E' vero che il neutro degli aggettivi greci può avere valore di astratto, così che ambedue le traduzioni sono grammaticalmente possibili. Ma non tradurrei col nome astratto "mare", il quale in italiano fa pensare a disturbi e malattie. Certo i discepoli non chiedevano d'essere esentati dalle malattie, destino inesorabile dell'uomo. In Genesi Il, 9 il male è il peccato. Ma l’Ebreo non aspetta che Dio lo liberi dal peccato, il quale, secondo la dottrina ebraica, dipende dal libero arbitrio dell'uomo. Neanche tradurrei "il Maligno", cioè Satana. Satana ha poca importanza nella religione ebraica, che è”rigorosamente monoteista. Non conosco preghiere ebraiche che chiedano di esser liberati da Satana, né che chiamino Satana "il Maligno". Mi par meglio tradurre letteralmente: "Liberaci dal malvagio". Infatti la frase è una citazione abbreviata del Salmo CXL:
"Liberami, o Signore, dall'uomo malvagio, preservami dall'uomo violento".
S'intende che al tempo del Salmista, il malvagio era il soldato greco e il Giudeo apostata. Al tempo di Gesù il malvagio sarà stato il soldato romano e il Giudeo collaboratore.
A conferma di questa interpretazione si può citare Matteo V, 39: μη αντιστηναι τω πονηρω "Non resistere al malvagio". Anche qui si tratta dell'uomo malvagio, non di Satana, nè delle malattie.
Non v'è contraddizione fra Matteo V, 39 e VI, 13. La Palestina era piena di malvagi. Resister loro era follia. Pregare Iddio che liberasse il paese era ovvio.
Anche questo versetto è soppresso da Luca per non dispiacere ai Romani.

Ammirate il bell'ordine del Paternostro; prima l'onore a Dto, secondo il suo regno in terra, terzo i bisogni dell'orante: il pane, il perdono, la pace. Un simile ordine, presso a poco, si trova in alcune preghiere ebraiche.

Alcuni manoscritti del V secolo aggiungono una dossologia: "Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria in eterno". Ma questa dossologia manca nei manoscritti del IV secolo e perciò i critici la ritengono apocrifa. Si legge tuttavia nella Didaché ed è in tutto conforme all'uso ebraico. Infatti è ispirata dalla preghiera di David in I Cronache XXIX, 11: "Tua, o Signore, è la grandezza; la forza e la gloria e la vittoria e la maestà .... Tuo è il regno, o Signore, e Tu sei inalzato come capo sopra a tutti".
Dalla medesima preghiera sarà stata ispirata la dossologia dell'Alenu "Il regno è tuo" e il verso del Cantico delle Creature di S.Francesco: "Tue so' le laude, la gloria e l'onore". Ed è uso ebraico aggiungere le 'olam va'ed dopo le lodi a Dio.
Molti critici (Wettstein; Bultmann, Fleg, ecc.) hanno osservato che il Paternostro è composto in gran parte di formule ebraiche. Dice E. F. Scott che chi mira a fare opera eterna deve riattaccarsi al passato. Ma senza negare il valore permanente delle petizioni, bisogna anche riconoscere che sono strettamente connesse con la situazione politica e con le speranze del tempo di Gesù. Pretendereste di capire la Divina Commedia senza conoscere la lingua, la situazione politica, le controversie del tempo di Dante?
Osserva il Bultmann (Jesus Christ and Mythology 1958, pp. 13-14) "La prima comunità cristiana attendeva il regno di Dio nel medesimo senso che l'aveva atteso Gesù. Anch'essa aspettava che il regno di Dio venisse nel futuro immediato. La Cristianità ha sempre conservato la speranza che il regno di Dio venga in un futuro immediato, sebbene abbia aspettato in vano. La speranza di Gesù e della prima comunità cristiana non si avverò. Esiste ancora lo stesso mondo e la Storia continua. Il corso della Storia ha smentito la mitologia".
Con sommo rincrescimento debbo confessare che il Bultmann non ha tutti i torti. Prima che quella generazione fosse discesa tutta nella fossa, venne, non già il Figlio dell’uomo sulle nuvole e gli angeli con le trombe (Matteo XXIV, 30-34; Marco XIII, 26-30; Luca XXI, 27-32), ma Tito, con le sue stragi e le sue distruzioni. Ma la Storia non finì allora e non è finita ancora. L'impero dei Cesari è caduto. Altri imperi sono sorti e scomparsi. La Palestina è per metà ebraica e indipendente. Questo almeno si è avverato.
Resta da imprimere i comandamenti della giustizia e della carità nei cuori degli uomini. Resta da lavorare per il regno di Dio inteso in modo più conforme alla nostra coscienza moderna. Per questo i Cristiani possono dire "Padre nostro che sei nei cieli" e gli Ebrei possono dire "Abinu shebashamaim". Diranno la stessa cosa. I Cristiani possono dire "Sia santificato il tuo nome" e gli Ebrei "ltkaddash shemeh rabba". E' la stessa cosa. I Cristiani possono dire "Venga il tuo regno" e gli Ebrei "Yamlik malkuteh". Diranno la stessa cosa.

The Book of Job

The Book of Job
By Marco Treves

A Philosophical Dialogue
The Book of Job may be described as a philosophical dialogue in verse or a dramatic poem dealing with the problems of Divine Justice (theodicy) and man's attitude towards misfortune.
Many famous dialogues on philosophical subjects have been written since 405 B. C. One need only to mention the names of Plato, Xenophon, Bembo, Baldassar Castiglione, Tasso, Galileo, Leopardi, etc.1 In view of these illustrious examples some writers of literary manuals re­gard the dialogue as the most suitable and natural form for discussing philosophical problems. This opinion, however, is open to question. Other literary forms appear to be more natural and suitable. Indeed, it may be doubted whether any philosophical dialogues would have been composed at all, were it not for the magnificent example of Plato who was admired and imitated by many generations of philosophers. Today, as the classical tradition is dying out, philosophers seldom write dia­logues.
Plato had several good reasons for choosing this form: in the first place he was a disciple of Socrates, whose peculiar method of discussion was maieutic, i. e. based on questions and answers. Secondly, he desired to pass off his own doctrines as though they were his teacher's, perhaps in order to lend them greater authority, or to disclaim responsibility for certain strange conclusions, or out of modesty. Thirdly, Plato was not only a philosopher, but also something of a poet, a story teller, and a humorist. The dialogue form provided an opportunity for giving vivacity and wit to abstruse matters, and drawing facetious caricatures of the sophists and rival philosophers. Fourthly, the Athenians of those days were great admirers of drama, and Plato wished to vie with the great writers of tragedies and comedies, as he says himself.2 Fifthly, Plato was an admirer of Sophron's humorous dialogues.
As there were no “maieutic” philosophers before Socrates and there were no comedies or tragedies — except in Greece and Sicily — before the Alexandrian age, one may conclude that Plato was the inventor of the philosophical dialogue, and that the literary form of the Book of Job indirectly derives from Plato.
The dialogue has a long tradition in Greece, whereas in Hebrew literature it is an isolated phenomenon. Of course, if the Book of Job derives from the Platonic dialogue we must date it after 331 B. C. Before Alexander's conquest the Jews had no opportunities of reading Greek literature.
The Book of Job, however, is not a direct imitation of any of Plato's works. We must look elsewhere for its sources.

The Structure of the Book of job
The Book of Job, apart from some interpolations, which will be dealt with later, consists of a prologue in prose, a series of speeches in verse by Job, his friends and God, and an epilogue in prose. Some mod­ern scholars suppose that the prologue and epilogue are by a different and earlier author. They suppose that a) a prose writer composed a short story about Job; b) at a later date a poet versified the dialogue part; c) either the poet himself or a third person — an editor — gutted the prose story, discarded the central portion, and sandwiched the verse dialogues between the two stumps.
This theory is not probable. In the first place a poet borrowing his plot from a prose tale would have versified the whole story. Why on earth should he have refrained from versifying the prologue and the epilogue? It is also highly questionable that a poet would have inserted his dialogue into a prose story made by someone else. I should certainly be amazed if I were told that either Shakespeare himself or a modern editor had published an edition of the central portion of the great dra­matist's Othello, devotailed between two fragments of G. B. Giraldi's prose tale serving as prologue and epilogue. If the portions of Job are by a different author, they certainly were written later than the poetic ones. One can mention many works of poetry and prose commingled in which the poetry is earlier than the prose, although I recollect very few in which the prose is earlier than the poetry.
F. Torraca's Manuale della letteratura italiana (Firenze, 1918, vol. I, part II, 124—212) contains the Divine Comedy partly in verse, partly in prose. The verses are by Dante, the prose passages are by Professor Torraca, who summarizes some of Dante's Cantos for reasons of space or of suitability.
Turning to older books, we find that the Saga of the Volsungs and Snorri Sturluson's prose Edda are written in prose, but contain quota­tions of earlier poems. In the Saga some of the speeches — i.e. the passages in direct oration — are in verse. The poetic Edda is largely in verse but some prose passages have been inserted by the compiler. In some cases (“Grimnismal”, “Lokasenna”) the prologues and the epi­logues are in prose, while the speeches are in verse,3 just as in the Book of Job. We find prose and poetry in the Deipnosophistae by Athenaeus. This author writes in prose but quotes fragments both of prose and of poetry. In all the other literary works composed of prose and verse that come to my mind — Dante's Vita Nuova, Boccacio's Ameto, Sannazaro's Arcadia, the Buddhist Birthstories (Jataka tales), the Lalita Vistara, the Saddharma-pundarika (the Lotus of the True Love), the Panchatantra, etc., the verse is either older than or contemporary with the prose. Even in the Hebrew Genesis some snatches of verses occur.4 Scholars agree that they are older than the prose texts in which they are embedded.
It is natural for a prose writer to quote poetry. It is also natural for the editor of a poem to add an introduction or a commentary in prose. It is not natural for a poet to quote pieces of prose or to insert his own poetic compositions into an already existing prose work by another writer.
In spite of the examples quoted above, one may doubt whether the prose and the verse sections of the Book of Job are by different hands. The reason is the following: in the whole range of ancient literature known to me, the work most similar to the Book of Job, both in struc­ture and subject, is Boethius’ De consolatione philosophiae. The similar­ities are the following:
1)Both works are a mixture of verse and prose, in spite of the fact that they have unity of subjects.
2)Both works are largely dialogues, which, however, are meant to be read, not performed on the stage. They both belong to a genre inter­mediate between the drama and philosophy.
3)In both works human and non-human (supernatural or allegorical) characters are introduced: Job, his friends, Satan and God; Boethius, the Muses, Philosophy.
4)Both works deal with the problems of Divine Justice and resignation in adversity.
5)Both are apparently intended to comfort the unfortunate, and con­clude that we must trust God, though His acts may seem inexplicable to us.
6)Neither has recourse to arguments drawn from faith in life after death, or from awareness of sins committed, or from a belief that the hero is suffering for a just cause or for the good of others.

These similarities are so numerous that they cannot be fortuitous. Yet it is quite unlikely that Boethius should have imitated the Book of Job. A Christian author of the sixth century A. D. would never have introduced such pagan characters of the Muses, Philosophy and Fortune into an imitation of the Bible.
We are forced to conclude that the authors of Job and the Conso­lation were inspired by a common model. If such is the case, the combi­nation of prose and verse may have already occurred in this model.
Modern scholars believe that Boethius borrowed the idea of the literary form of his book from Menippus, a Cynic philosopher of Gadara in Palestine. The writings of Menippus are lost. We know, however, that they induced dialogues in a mixture of prose and poetry (Lucian, Bis accus. 33), that they dealt with ethical and philosophical problems and that some of the interlocutors were gods or mythical heroes. They must have been very popular among the ancients, for they were imitated by Ennius, Varro, Lucilius, Horace, Seneca, Petronius, Lucian, and Marcianus Capella. So in all likelihood, we have found at last the literary model of the book of Job and the missing link between Plato and Job and between Plato and Boethius.
If anyone should object that an irreverent Cynic like Menippus is unlikely to have provided the model for a pious and serious work such as the Book of Job, one might reply that the De consolatione is pious and serious too, and yet all the critics derive it from Menippus. Nothing prevents us from supposing that the Book of Job is rather a refutation than an adaptation of Menippus’ philosophy. All modern literatures abound in religious works which imitate in structure pagan or profane ones inspired by different ideologies. I do not claim that the author of Job adopted any of Menippus’ doctrines. I merely claim that he bor­rowed from him the idea of composing a philosophical dialogue in verse on the problem of the conduct of the sage in adversity.
Boethius ignores the possibility of finding consolation in any Chris­tian eschatological belief. He draws all his arguments from pagan philos­ophy. He introduces the character of Fortune, which for a believing Jew or Christian is almost impious. All this is rather strange, considering that he was a devout Christian and the author of several theological treatises. It can only be explained on the assumption that he followed rather closely a pagan model.
It might be supposed that Boethius and the author of Job imitated not Menippus but some other Greek writer of the same period: for in­stance we know that Crates of Thebes wrote tragedies imbued with the spirit of philosophy and the poem of Job is a kind of philosophical tragedy. However, there is no evidence that Crates mixed verse with prose, and since the scholars who have studied the sources of Lucian, Boethius and Latin satire writers attribute the invention of this literary form to Menippus, we shall abide by the consensus of the scholars.
There is another ancient dialogue which has a certain similarity to the poem of Job and the De consolatione. This is Lucian's fisherman. The points of resemblance are the following:
1)Like both Job and the De consolatione, it is philosophical and dra­matic.
2)As in the poem of Job, the protagonist is a man who is accused unjustly and whose innocence is finally vindicated.
3)As in the De consolatione, one of the characters is a personification of philosophy.
4)As in the De consolatione, the protagonist is the author himself.

In spite of the great differences in tone and details, I suggest that these three dialogues may be imitations of the same work of Menippus. Of course, I use the word “imitation” in the broadest sense, so as not to preclude a good deal of originality and the influence of other sources.
The Latin scholar Varro wrote “pseudotragedies” which, like the Book of Job, were dramas intended to be read, not recited on the stage. He is supposed to have borrowed this genre from the Greek Cynics. He also wrote satires in a mixture of prose and verse, in which he imitated Menippus. Thus, from whichever direction we approach our problem, we are always brought back to Menippus.5
In conclusion, it is almost certain that the Book of Job — with the exception of the interpolations — is the work of a single author. If there were two authors, it is probable that the poet be earlier than the prosa­ist. It is absolutely impossible that the prosaist should be earlier than the poet.
It is very probable that the Book of Job imitates the dialogues of Menippus. It is less probable that it imitates some other Greek author of the Hellenistic age, who, like Menippus, combines some features of the Platonic dialogue with some features of the Greek drama. It seems improbable that Job's model should be pre-Hellenistic or non-Greek.

The Date of job
Termini post quos:
1)The language is comparatively late and contains many Aramaisms, which point to the post-exilic period.
2)The personage of Satan, unknown to the pre-Exilic Hebrews, is considered to be an adaptation of the Evil Spirit of the Iranian reli­gion. Satan tempts Job as Angria-Mainyu tempted Zarathustra.
3)The Book of Job is a philosophical dialogue, a literary form which was invented by Plato ca. 405 B. C. and could hardly have been known to the Jews before 331 B. C. Since the philosophical dialogue is a derivation of Socrates’ maieutics, of Sophron’s mimes and of Attic drama, it could not have come into existence independently among a people who had no drama, no mimes, no knowledge of Socrates.
4)The Book of Job is probably an imitation of some dialogue by Men­ippus of Gadara (died ca. 250 B. C.).
5)The mention of a runner (Job 9,25), which probably refers to foot races, also points to the Hellenistic period. The ancient Hebrews did not go in for athletics.
6)The word “wisdom” occurs in the post-exilic sense of Torah in Job 11,6.
7)The Book of Job contains a few reminiscences of the Greek trage­dies, which could hardly have been known to the Jews before 322 B.C.
8)The Book of Job contains many reminiscences of the Song of Songs (certainly after 260 B. C., and probably after 246).
9)The Book of Job contains many echoes of Prov 10—29 (3rd century B.C.).
10) There is an allusion to the Greek studies on the dimension of the earth (Job 9,9). Eudoxus (408-355 B.C.) was apparently the first scientist who tried to calculate the dimensions of the earth. But our poet was probably thinking of the studies of Eratosthenes of Cyrene — librarian at Alexandria from 240 to 194 B. C. — set forth in his book On the Mensuration of the Earth. The inhabitable world of Job 37,12 and the earth hanging in space (Job 26,7) are also Greek conceptions which our poet found in Eratosthenes.
11)The reference to the sword of Damocles (Job 15, 20—22) probably derives from Timaeus of Taormina, a Sicilian historian who flour­ished about 265 B. C. (cfr. Kirkpatrick, Psalms, 46).
12)The description of so many animals in Job 38—41 shows that the poet was much interested in zoology, a science that had been founded by Aristotle, who was head of the Lyceum from 335 to 322 B. C., but the interest in wild animals may have been fostered by the hunting exploits of Ptolemy Epiphanes in 189—188 B. C.
Termini ante quos:
1)Ecclesiastes (168 B. C.) contains a few reminiscences of the Book of Job.
2)Jesus ben Sirach (162—141 B.C.) mentions Job in a manner that shows he was acquainted with our book and also imitates several passages.
3)Job contains no mention of the immortality of the soul or the resur­rection of the flesh, beliefs which might have provided a more consol­ing solution to the problems of divine justice. These doctrines were adopted by the Pharisees apparently about the time of John Hyrcanus (end of second century B. C.). However, the resurrection was already known in the days of Daniel 12 (ca. 164 B. C.).
4)The development of the idea of Wisdom seems to show that Job is earlier than Prov 1—9 (ca. 165) and Ecclesiasticus.
5)The non-nationalistic outlook, the absence of any reference to Israel, to the Torah or to the Prophets, the choice of an Edomite for a hero makes it likely that the book was composed before the Maccabean wars, which aroused nationalistic feelings and hatred of the Edomites.
6)In declaring his innocence (Job 21), Job does not mention idolatry among the sins he has avoided.
7)Among the misfortunes which destroyed Job's cattle and his family, war is not mentioned.
8) I have the impression that several Greek phrases occurring in the Psalms were borrowed not directly from the Greek authors but through the Book of Job, whose author was certainly acquainted with Greek literature.
We may conclude that the Book of Job, with the exception of the chapters which contain Elihu's speeches (32- 37), was probably com­posed between 188 and 170 B.C., but there is no certainty. The Elihu chapters are an interpolation inserted a few years later.
The scene of the dialogue is doubtless laid in the land of Edom. The place where the poet wrote was probably Egypt. The plants men­tioned in 8,11 are the papyrus and the Nilegrass according to some interpreters. The ships of reeds (Job 9,26) are the boats made of papyrus, mentioned by Pliny xiii 3 and Lucan, Pharsalia iv 36. The Leviathan may be the Lothan of the Ugaritic texts, a seven-headed serpent like the Hy­dra of Greek mythology. Probably, like the Hydra, it was a poetic ideali­sation of the octopus. But the poet of Job, who had never seen a Leviathan, in describing one borrows some details from the Egyptian croco­dile which he had seen, and in describing Behemoth he borrows details from the Egyptian hippopotamus. In any case, by placing the Jordan in the land of Uz and the Behemoth in the Jordan he shows that his geogra­phy and his fauna are equally poetic.
It should be emphasised that the Book of Job is a deeply religious work. It is not a prophecy, a sermon, a treatise of theology, a liturgical hymn. It is rather religious in the sense that the Divine Comedy and Paradise Lost are religious, and even more since it has greater unity and contains no digressions. The messages that it is meant to convey are the following: firstly, as Solon told Croesus and many other Greek poets stated afterwards, before you pronounce a man happy or unhappy you most wait and see the end of his life. Fortune and misfortune, no matter how glaring and outrageous, may be only temporary. He who is on the top today may be at the bottom tomorrow and vice versa.
Secondly, there is a divine justice. In the end, it is the just who are rewarded and the wicked who are punished (Job 34; 36,6; etc.): do not fret yourself when evildoers are powerful, for their calamity will come suddenly. Neither despair when the upright are afflicted, for just as sud­denly the Lord will deliver them.
Thirdly, God's ways are inscrutable: just as man cannot understand the physical economy of the universe, so he cannot grasp its moral econ­omy. Salvation or destruction may arrive by the most unexpected means.
Thus the Book of Job makes an organic whole and its conclusion is faith. It is of course a work of fiction and not a philosophical treatise. You cannot expect to find in it the rigorous syllogisms which you may find in St. Thomas' Summa or in Spinoza's Ethica. The arguments used by Job and his comforters do not necessarily reflect the poet's views.
They are intended to represent dramatically the situation and not to convince the reader. Some of these arguments are refuted by facts related in the last chapter. It is God's intervention and the final restoration of Job's prosperity that confound and reduce to silence both Job's lamenta­tions and his friends' consolations.

Critical Remarks
The poet who brings God to speak on the stage is obviously not an atheist nor an Epicurean. He cannot be identified with any particular school of Jewish thought because he wrote before the various schools — Sadducees, Pharisees, etc. — began to develop. The way he absorbs Greek thought in orthodox Judaism is remarkable. We have already pointed out the numerous borrowings from Greek poets and scientists that testify to the author’s extensive learning. The story of Job is an illustration of the Greek maxim that before declaring a man happy or unhappy, one must see the end of his life.
The God of the Old Testament is at the same time the universal creator, the ruler of the world and the national God of the Hebrews. In the Book of Job only the first aspect is brought out. The absence of any national feeling in the book is remarkable. The hero and his friends were ancient Edomites, and therefore technically pagans, yet this is nowhere suggested. There is no reference to the Temple, to Jerusalem nor to any distinctly Jewish rite. Several explanations may be given for these facts. The author was living in Alexandria, where the Jews were well treated and happy, together with citizens of other races, under a non-Jewish king. He was equally at home with Hebrew and Greek literature and found inspiration in both. He intended to give to his message a universal scope. The Maccabean struggles, which revived Jewish nationalism, had not yet begun.
The Book of Job is a poem and not a sermon or philosophical treatise. It offers a dramatic representation of divine justice and not an exhaustive discussion of it. The denouement is effected by resorting to the typical Euripidean device known as Deus ex machina. This device is condemned by Aristotle (Poetics xv 1454b) on the ground that the denouement of the story must result from the story itself and not from the intervention of a god. A defender of our poet can reply: first, God's intervention in human affairs is precisely the thesis of the poem. Se­condly, an expedient that may be offensive on the stage — due to the necessity of dressing an actor as a god, of introducing him by machinery, etc. — is acceptable in a poem intended to be read:
«Segnius irritant animos demissa per aurem
Quam quae sunt oculis subiecta fidelibus, et quae
Ipse sibi tradit spectator.» (Horace, Ars poetica, 180—182)

Thirdly, the author of Job probably had studied the treatise of Neoptolemus of Paros, whose rule is thus paraphrased by Horace:
«Nec deus intersit nisi dignus vindice nodus inciderit. » (Ars poetica, 191)
He follows all the other precepts of Aristotle and Neoptolemus in that: a) there is unity of action; b) it is poetry that is more philosophical than historical; c) the characters follow a traditional pattern; d) compassion and fear are roused; e) the characters are friends; f) the poet sympathizes with their emotions; g) incidents of murder are narrated and not en­acted; h) the poem is both educational and entertaining.
The poet was a classicist of the strictest kind, a peruser of the exemplaria Graeca, and a faithful disciple of Aristotle and Neoptolemus.

The Interpolations
The Book of Job is perhaps — comparatively speaking — one of the better preserved books of the Old Testament. However, owing to its carefully planned symmetrical structure, the interpolations and lacunae are all the more evident.
It seems probable that originally the speeches were arranged in three rounds, each consisting of six speeches, but some confusion has crept in. The interpolations are listed by N. Schmid, S. R. Driver and G. B. Gray. The more important ones are the Eulogy of Wisdom (chap. 28) and the speeches of Elihu (chaps. 32—37).
The Eulogy of Wisdom should be dated after the Book of Job, but before Proverbs 1—9 and Ecclesiasticus6. Elihu’s speeches differ from the rest of the book in style and language. Of course, they are later than the rest of the book. I would date it before 164 B. C. and Elihu's speeches in 163 — 152, but probably 163.
There is apparently no difference in style and vocabulary between the poetic and the prosaic parts of the Book of Job. This is strange, because many writers use different styles for prose and poetry. Anyway, this confirms my theory that the author of the prologue and the epilogue is the same as the man who wrote the speeches.
There existed during the Roman Empire and in the Middle Ages another story of Job, different from the one in the Bible. The three comforters were not mentioned in it, and the characters were Job, his wife and Satan. This other story, which may be called a “folk-tale”, is preserved in several versions, particularly in Moslem countries. There are references to it from the 4th century A. D. on. We have no means of dating it and ascertaining whether it was later or earlier than the Biblical poem. We can only say that it was post-exilic, since it mentions Satan. If Satan appeared in it as the leader of a Persian army, as in the Testa­ment of Job, the folk-tale must have originated after the downfall of the Achaemenids. This folk-tale should not be confused with the prologue and epilogue of the Biblical poem. In the prologue and epilogue the three comforters are mentioned and the language is Hellenistic. The words “wisdom” and “folly” are used in the hellenistic acceptations.
Ez 14,18 — 20 mentions Job. He must have known some anecdote about him, but he could have known neither the Biblical poem nor the folk-tale, because neither was yet in existence.
We may sum up our conclusions as follows:
1)Job was the hero of some ancient history or legend or myth, which was known to Ezekiel, who mentions Job together with Noah and Daniel as a righteous man. This history or legend or myth is lost and we know nothing about it.
2)The Book of Job is a literary work, belonging to a genre which mixes poetry and philosophy and has its closest parallel in Boethius' Consolation of Philosophy. This genre was probably invented by Menippus.
3)The Book of Job was written about 200 B. C. by a great Jewish poet, whose name is unfortunately unknown and who was well acquired with both Hebrew and Greek literature.
4)We do not know whether this poet used at all the tale known to Ezekiel or whether he invented the plot out of whole cloth.
5)The Book of Job is a unit of which the prologue and epilogue in prose are integral parts. However, the chapter on wisdom and Elihu’s speeches are interpolations. The chapter on Wisdom might well be another poem by the same author. Elihu’s speeches are by another poet and a few decades later. The Book of Job probably has some lacunae which are noticeable because of its symmetrical structure.
6) The purpose of our Book is not to prove that the righteous man can be unhappy, for no one would write a book to prove such an obvi­ous fact. Moreover a religious person would never try to dispel the illu­sion that righteousness always leads to happiness, if some naive person were to entertain it! Our book was written to explain why the righteous man is sometimes unhappy and to reconcile this obvious fact with the belief in divine justice. The answer our book gives, is that the acts of God are inscrutable and that the righteous is happy in the end.

Notes:
1.On the history of the dialogue see R Hirzel, Der Dialog, 1895.
2.See Plato Symposium, 233, 239; Republic, V 4/3 d; Laws, 65/9 bc.
3.Cf. H. A. Bellows, The Poetic Edda, 1926, 84f.
4.H.E. Ryle, The Book of Genesis, 1914, XXXIV.
5.The dates of Menippus’ life are not known with certainty. He was a disciple of Crates of Thebes, who flourished about 328 — 325 B.C. and died at a great age. Diogenes Laertius, who usually arranges the biographies of the philosophers of each school in chronological order, places the biography of Menippus between that of Metrocles (4th to early 3rd century) and that of Menedemus the Cynic (3rd century B. C.). Menippus wrote on the offspring of Epicurus, presumably after Epicurus’ death (270 B.C.). He also wrote on Arcesilaus (316-241 B.C.), presumably when Arcesilaus was old enough and important enough to be the subject of a dissertation, and probably after he had become the head of the Academy (ca. 266 B.C.). Hermippus of Smyrna, who wrote about 192 B. C., told of Menippus’ suicide. Menippus is one of the speakers in Lucian’s dialogue entitled Icaromenippus. He relates a fantastic flight to heaven, during which he catches sight of the Colossus of Rhodes (erected 302-290, fallen in 224 B.C.) and the lighthouse Pharos (completed in 280 B.C.), sees Ptolemy in his sister's arms (ca. 272-271 B.C.), Lysimachus’ son conspiring against his father (284 B.C.), Seleucus’ son Antiochus flirting with his stepmother Stratonice (292 B.C.), Alexander of Thessaly slain by his wife (358 B.C.), Attalus’ son preparing poison for his father (Attalus II was poisoned by a nephew in 138 B.C.), Arsaces (perhaps Arsaces I, king of the Parthians 250 — 248 B. C.) killing a woman, and various other incidents, which are of uncertain date and perhaps not all historically accurate.
One has the impression that Lucian had the intention of mentioning events that occurred at the time of Menippus, but through carelessness made mistakes and created some confusion. We may assume that the stories of Alexander and Attalus are based upon such confusion between namesakes. The other incidents do not necessarily imply anachronisms. In the same dialogue Menippus is represented as acquainted with the doctrines of Crysippus (ca. 280 — 206 B. C.). In the tenth Dialogue of the Dead Menippus arrives in Hades at the same time as the athlete Damasias (a winner in 320 B. C.), and other unidentified personages. From all this evidence one may conjecture that Menippus was born in the latter half of the fourth century and probably lived till about the middle of the third.
6.The doctrine that Wisdom is the fear of the Lord is typically Jewish and quite at variance with the views of the Greeks. Nonetheless the comparison between the quest for Wisdom and the quest for precious minerals may have been suggested by some Stoic essay. Compare Philo's treatise Quod omnis probus liber sit, 65 — 68: «For the sake of money we ransack every corner and open up rough and rocky veins of the earth, and much of the low land and no small part of the high land is mined in quest of gold and silver, copper and iron, and the other like substances. The empty-headed way of thinking, deifying vanity, dives to the depth of the sea, searching whether some fair treasure to delight the senses lies hidden there. And when it has found different kinds of many coloured precious stones, some adhering to rocks, other ones, the more highly prized, to shells, it gives every honour to the beguiling spectacle. But for wisdom or temperance or courage or justice no journey is taken by land, even though it gives easy traveling, no seas are navigated, though the skippers sail them every summer season. Yet what need is there of journeying on the land or voyaging on the sea to seek and search for virtue, whose roots have been set by their Maker ever so near us, as the wise legislator of the Jews also says, ‘in his mouth, in thy heart and in thy hand’, thereby indicating by a figure words, thoughts and actions? »

La responsabilità della condanna di Gesù

LA RESPONSABILITA' DELLA CONDANNA DI GESU’- (Lettera aperta a un amico cattolico)

Estratto da “La rassegna Mensile di Israel” Fasc. 9 – 1964 - Roma

Caro amico cattolico,
Ho riletto la Lettera pastorale del Cardinale Lienart(1), che Ella ha fatto tradurre in italiano, e le confesso che certe frasi mi hanno stupito. Accanto a molti nobili sentimenti, che fanno onore a Sua Eminenza, vi sono alcune affermazioni che hanno bisogno di rettifica.
Lasciamo stare che la parola e “deicidio” fa inorridire la mia coscienza di filologo, perché non solamente per gli Ebrei e per i Musulmani, ma anche per gli antichi pagani, greci e romani, gli dei erano immortali per definizione e quindi la parola “deicidio” conterrebbe una contraddizione nei termini. E voialtri Cattolici, i quali credete che Gesù fosse insieme uomo e Dio, credete forse che quando morì Gesù, morisse anche Dio? E che avvenne, in quei due giorni che Dio era morto? Le vacche smisero di partorire, i fiori di crescere, il sangue si fermò nelle vene degli uomini e i pianeti si arrestarono nelle loro orbite? Oppure l'Universo seguitò a funzionare anche senza il Supremo Reggitore? Forse per forza d'inerzia? E se Gesù mentre era ancora vivo si disse abbandonato da Dio (Marco XV, 34; Matteo XXVII, 46), credete voi che durante questa temporanea dissoluzione dell'unione ipostatica; Gesù e Dio morissero separatamente? E non Le pare che la parola “deicidio” sappia un poco di patripassianismo?
Ma lasciamo stare questi problemi di linguistica e di teologia cattolica, e veniamo ai fatti storici.(2)
Il Cardinale chiama gli Ebrei “esecutori” della morte di Gesù. Gesù fu ebreo, fu condannato a morte da un magistrato romano seguito a violazioni vere o presunte, della legge romana, e fu crocifisso da soldati romani, i quali. obbedivano agli ordini del medesimo magistrato romano. Eppure spesso si leggono passi di scrittori cristiani che trasformano i carnefici in Ebrei(3) e qualche volta perfino Gesù in romano! Doppia fallace trasformazione! La quale in molti casi è dovuta semplicemente alla ignoranza o alla distrazione dello scrittore, ma in altri è frode intenzionale.
I Romani in quel secolo crocifissero migliaia di Ebrei(4). Gesù fu uno fra tanti. Tra le migliaia vi saranno stati santi e peccatori, galantuomini e malandrini, ma tutti furono accomunati dal medesimo orribile e 'atrocissimo supplizio. Perciò a tutti dobbiamo inchinarci con compassione e con reverenza(5)
E i sacerdoti di Gerusalemme? Io non li voglio difendere di certo. Erano uomini rapaci e violenti, avidi di danaro e succubi dei Romani(6). Il Lienart con frase ambigua li chiama “capi responsabili del popolo ebreo”. Responsabili a chi? Erano nominati dall'autorità romana, che li promoveva e destituiva a piacimento(7). Il popolo ebreo li detestava come risulta da una canzoncina del tempo(8). Se dal 15 al 18 i Procuratori cambiarono Sommo Sacerdote ogni anno e poi lasciarono che Giuseppe detto Caiapha rimanesse in carica 18 anni, se ne può dedurre che costui fosse più docile dei suoi predecessori e più zelante nel contentare i padroni.
Noi non abbiamo la sua versione dei fatti e non possiamo conoscere i suoi intimi sentimenti. Forse in cuor suo provava compassione per Gesù, suo connazionale. In questo caso paragonerei il suo stato d'animo a quello di Mussolini, il quale aveva già perdonato a Galeazzo e si era riconciliato con lui, quando dovette farlo condannare a morte da un tribunale italiano, perché prevedeva che altrimenti il governo hitleriano l'avrebbe fatto morire ugualmente e di più avrebbe abolito quei pochi rimasugli d'autonomia lasciati fino allora al governo di Salò e sottoposto l'Italia al regime feroce vigente in Polonia(9). Può darsi invece che Caiapha fosse spaventato per i tumulti di quei giorni che minacciavano il tranquillo godimento delle sue rendite, e che fosse furibondo per l’oltraggio fatto a un suo servo, al quale un discepolo di Gesù aveva tagliato un orecchio (Marco XIV, 47)(10).Ma qualunque fossero i suoi sentimenti, non avrebbe potuto comportarsi diversamente se non voleva perdere subito il posto.
E la folla che gridò “Crocifiggilo!”? Noi sappiamo che Pilato talvolta mescolava alla folla i suoi soldati romani travestiti da Ebrei (Flavio G. Ant. XVIII, iii, 2; Guerra II, ix, 4). Può darsi che anche in questo caso si trattasse di soldati romani travestiti. Ma può anche darsi che fossero veri Ebrei. In questo caso saranno stati Sadducci, perché così si chiamavano allora i Giudei ligi al Procuratore e al Sommo Sacerdote. Ma i Sadducci erano una piccola minoranza nella stessa Gerusalemme(11). Erano forse qualche centinaio di persone, appartenenti tutte alla classe dei ricchi. La popolazione giudaica della Palestina e della Siria ammontava forse a qualche milione(12). Vi erano poi altri milioni di Ebrei che abitavano ad Alessandria d'Egitto(13), in Babilonia(14), in Persia(15), in Asia Minore(16), a Cirene(17), a Roma(18). Tutti questi non seppero neppure dell'esistenza di Gesù se non alcuni decenni dopo, quando cominciò la propaganda cristiana fuori di Palestina. In quei tempi non c'erano giornali, né radio, né televisione. La maggioranza degli Ebrei d'oggi discende da antenati che allora vivevano fuori Palestina. Forse uno su diecimila può discendere da quei Sadducei che inscenarono quella dimostrazione davanti al Pretorio.
ネ un principio giuridico fondamentale che solo chi ha commesso un fatto deve essere punito e che non è lecito punire i figli per le colpe dei padri. Questo principio era riconosciuto anche nella Bibbia (Deuteronomio XXIV, 16; 2 Re XIV, 6; 2 Croniche XXV, 4). Nel diritto greco fu introdotto nel IV secolo a. C. e oramai è accolto nelle leggi di tutti i paesi civili, essendo conforme alla ragione, alla carità e alla giustizia.
Fin qui per quel che riguarda la giustizia umana. Per la giustizia divina, il Pentateuco asserisce che Dio punisce l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione e si mostra misericordioso fino alla millesima generazione verso coloro che osservano i comandamenti (Esodo XX, 5; XXXIV, 7 ; Numeri XIV, 18 ; Deuteronomio V, 9). Poiché ogni giorno si vedono giusti tribolare e iniqui godere dei frutti delle loro ruberie, e poiché non era stata ancora introdotta tra gli Ebrei la credenza nella vita eterna, queste minacce e promesse erano necessarie per dare una sanzione ai comandamenti della Torà. Si osservi tuttavia che la punizione è limitata alla quarta generazione (poco più d'un secolo).
Ma Ezechiele (cap. XVIII) col suo vivo senso di giustizia, stabilisce che anche le punizioni divine sono limitate alla persona che pecca, e che i figli non paghino mai per le colpe dei padri.
Fa meraviglia che i Cristiani del Medio Evo siano giunti a tal segno d'ingiustizia e di barbarie da voler abolire non solo le massime d'Ezechiele, ma persino quelle del Pentateuco, facendo le punizioni divine perpetue e punendo i figli per le colpe dei padri. Questo è un difetto del Cristianesimo che il Concilio dovrebbe eliminare.
E di Pilato che dobbiamo pensare? Pilato è descritto da un contemporaneo come uomo “di natura inflessibile, prepotente, brutale, il quale durante la sua amministrazione era stato reo di venalità, di violenze, di ruberie, di maltrattamenti, di insolenze, di frequenti uccisioni senza processo, e di infinite e insopportabili crudeltà” (Filone Leg. ad Gaium XXXVIII, 301-302). Gli Evangelisti si sono proposti il compito contraddittorio di esonerare la riputazione di Pilato e di proclamare l'innocenza di Gesù. A ogni modo, pare che Gesù fosse processato regolarmente. Considenamo la posizione del Procuratore:
Moltissimi Giudei erano ostili ai Romani. Nei decenni precedenti c'erano state numerose insurrezioni e altre dovevano scoppiare in seguito fino alla gran guerra del 66-73. Molti Giudei(19) sognavano l'indipendenza nazionale, molti la restaurazione della dinastia davidica, molti non riconoscevano altro sovrano che Dio.(20) Queste tre dottrine erano corroborate da molti luoghi delle Sacre Scritture ebraiche, ma tutte e tre erano alto tradimento ai sensi della Lex Iulia maiestatis.(21)
Ora Gesù, se dobbiamo credere ai Vangeli : 1) aveva proclamato imminente il regno di Dio(22); 2) era entrato trionfalmente in Gerusalemme, accolto da grida “Osanna al figlio di David! Benedetto il regno di David!”(23); era entrato nel recinto del Tempio e aveva cacciato i venditori di colombe e rovesciato le tavole dei cambiavalute(24); 4) aveva armato un discepolo, il quale aveva tagliato un orecchio a un servo di sacerdoti.
I primi due reati erano evidenti violazioni della Lex Iulia e portavano automaticamente la pena di morte. Questa era eseguita di solito con la crocifissione, quando i rei erano schiavi o provinciali di condizione umile che non avevano la cittadinanza romana(25). Anche gli altri due reati sarebbero puniti in qualunque Stato antico o moderno.
Si può osservare che Tiberio era severissimo nell'applicare la Lex Julia(26): Cremuzio Cordo, Sesto Vistilio, Considio Proculo, Mamerco Scauro furono condannati. a morte per reati meno gravi di quelli di Gesù. Si può osservare che Pilato era uomo violento e crudele, come si è detto di sopra. Si può osservare che in quei giorni c'era stata un’insurrezione (secondo Maro XV, 7) e il Procuratore poteva temere nua rivolta generale e sentire la necessità di far presto. Si può osservare che la formula di Gesù “regno di Dio” era identica a quella di Giuda di Galilea, e Pilato non era tenuto a distinguere. Ma neanche con altro governatore più mite Gesù l’avrebbe fatta franca.
Diceva il Maresciallo Lyautey: “Mi è sempre parso strano che Pilato aspettasse tre anni prima di fare arrestare Gesù. Questi aveva percorso il paese predicando, arringando le turbe, guarendo i malati. In Oriente chiunque provoca assembramenti dev'essere sorvegliato. Quando ero Presideute Generale al Marocco mi facevo sempre riferire ciò che quei mullah e ulema girovaghi dicevano al popolo. I più erano individui innocui, qualcuno era debole di niente. Ma qualche altro poteva avere l’ardore di Maometto e diventare il profeta d’una idea nuova. Uomo così fatto era Gesù. Il governatore romano in Giudea non poteva tollerate uno che andava dicendo al popolo: Sapete che i principi dei pagani li tirannegiano e che i grandi li dominano, ma non sarà così tra voi (Matteo XX, 25-28). Questi sono discorsi pericolosi”(27).
Il Maresciallo, che per la sua esperienza come governatore di paesi orientali, poteva capire meglio la situazione politica della Giudea sotto Pilato, prosegue dimostrando il contenuto sovversivo, rivoluzionario, antiromano della predicazione cristiana. Questo contenuto, in parte mascherato nei Vangeli, cento volte corretti in senso filo-romano e anti-giudaico, risulta più chiaro nell’Apocalisse, la quale, essendo incomprensibile al volgo, sfuggì meglio alle correzioni. Nell’Apocalisse Roma è la gran meretrice, ubriaca del sangue dei santi.
Errore frequente è il credere che Gesù subisse due processi e due giudizi, l'uno dinanzi al Sinedrio e l'altro dinanzi a Pilato, oppure che fosse condannato dal Sinedrio e che la condanna fosse ratificata da Pilato. Queste ipotesi sono contrarie al buon senso, alla prassi romana e al testo dei Vangeli. Un secondo processo presuppone che il condannato sia ricorso in appello, o (in caso d'assoluzione) che vi abbia ricorso l'accusatore. Ma Gesù non si appellò, nè fu assolto dal Sinedrio. Oltre a ciò l'appello era ammesso solo a Cesare (Alli XXV, 11). Oltre a ciò solamente i cittadini romani potevano appellarsi. L'ipotesi che una condanna del Sinedrio avesse bisogno di ratifica del Procuratore è contraria al diritto di quei tempi. Oltre a ciò, se Gesù fosse stato condannato da un tribunale ebraico, sarebbe stato lapidato, e non crocifisso. Oltre a ciò, la sentenza avrebbe dichiarato quale violazione della legge ebraica egli aveva commesso. Invece il tilulus della Croce indicava una violazione della Lex Iulia. Oltre a ciò, Pilato non avrebbe mai prestato soldati romani per eseguire una sentenza d'un tribunale indigeno. Oltre a ciò, molti particolari (seduta notturna, alla vigilia d'una festa, ecc.) sono contrari alla procedura ebraica dei processi dinanzi al Sinedrio.
La soluzione del problema fu trovata dall'Husband(28), il quale aveva studiato i padri trovati in Egitto e acquistato una conoscenza della procedura romana nelle provincie, che il Rosadi non aveva. I tribunali indigeni, oltre alla funzione di giudicare le cause di loro competenza, potevano anche istruire i processi da presentare al governatore. Questo fece il Sinedrio. Sottopose Gesù a un interrogatorio preliminare per accertare se fosse il caso di sottoporlo al giudizio di Pilato. I sacerdoti non accertarono nessuna violazione della legge ebraica e non pronunziarono nessuna sentenza. Per questo interrogatorio non si richiedevano tutte le formalità prescritte per i veri giudizi. I sacerdoti, accertato che il caso era grave, presentarono un atto d'accusa (Matteo XXVII, 13 Marco XV, 3 ; Luca XXIII, 2), e non una sentenza da ratificare. La sentenza la pronunziò Pilato in base alla legge romana e la fece eseguire da soldati romani.
Secondo i Sinottici (Matteo XXVII, 12, Marco XV, 2, Luca XXIII, 3) Gesù interrogato da Pilato dette una risposta ambigua. Secondo I Timote'o VI, 13, confessò. A ogni modo, non negò Marco XIV, 58 e Matteo XXVI, 61, dicono che falsi testimoni l'accusarono d'aver detto che avrebbe distrutto e riedificato il Tempio. Ma secondo Giovanni II, 19 Gesù avrebbe detto veramente una frase molto simile. Checché sia di ciò, per gli altri atti più gravi che abbiamo elencato e che furono compiuti in pubblico, i testimoni non potevano mancare. La condanna era inevitabile.
I Sacerdoti obbedivano agli ordini di Pilato, e Pilato obbediva agli ordini di Sciano e di Tiberio, ma questa non è una giustificazione, come non è una giustificazione per Eichmann l'avere obbedito agli ordini di Himmler e di Hitler.
Né io, considerando che Tiberio, Sciano, Pilato e presumibilmente il centurione e i soldati, erano italiani, mi abbasserò a dire che i “deicidi” o i “cristicidi” sono gli italiani. Sarebbe una ritorsione troppo facile. Abbiamo già detto che le colpe sono sempre individuali. Neanche bisogna accusare dei delitti di Hitler tutto il popolo tedesco, ma solamente coloro che vi hanno partecipato.
Mi viene in mente la seconda favola di Fedro, il lupo che dice all'agnello “Tu m'intorbidi l'acqua”, “Ma come è possibile, se io mi trovo a valle?” “Sei mesi fa tu dicesti male di me”, “Ma se non ero ancora nato”. “Se non fosti tu, sarà stato tuo padre”. Così fatti sono gli argomenti di coloro che accusano gli Ebrei.
Per dimostrare la confusione che s'incontra talvolta negli scritti dei Cristiani si possono citare i versi di Iacopone da Todi:
Crucifige! Crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege,
contraddice al Senato.
Quale legge? L'ebraica o la romana? E quale Senato ? Il Sinedrio o il Senato di Roma ? Nessun comandamento della Legge ebraica proibisce di farsi re. Anzi gli Ebrei ebbero molti re, da Saul ad Agrippa. Ma l’uomo che si fosse fatto re avrebbe corto violato la Lex Iulia, esponendosi alla pena di morte. Se le turbe avessero detto davvero “secondo nostra legge”, avremmo la prova che erano Romani travestiti.
Gesù non aveva violato nessun precetto della logge ebraica. Del resto in cose di religione gli Ebrei erano piuttosto tolleranti. Sadducei, Farisei, Esseni, discepoli di Gesù si recavano a pregare nel medesimo Tempio e nelle medesime sinagoghe, e vi godevano anche di una certa libertà di parola (maggiore di quella che c'è oggi nelle sinagoghe e nelle chiese).
Riconoscendo che Gesù aveva violato la legge romana, non si certo gettare un’ombra sull'altezza dei suoi ideali. Anche Pisacane, Oberdan, Sauro, Battisti furono condannati secondo la lettera delle leggi borboniche e austriache. Eppure noi li veneriamo come martiri gloriosi. Gesù fu un martire ebreo giustiziato dai Romani. Fu una vittima dello imperialismo. Cose simili sono sempre accadute quando una nazione ne opprimeva un'altra. Credo che Lyautey, Graziani, Kitchener, se si fossero trovati nei panni di Pilato; avrebbero condannato Gesù. Non parliamo poi delle repressioni russe in Ungheria, delle stragi fatte dai Tedeschi in Italia ecc.
Bisogna anche protestare contro l'asserzione che la Crocifissione fu voluta da Dio e che quindi gli uomini (gli Ebrei secondo il Lienart, i Romani secondo la verità storica) non furono che gli esecutori. Per chi crede in Dio, ogni avvenimento è voluto o permesso da Dio. Per chi crede nel Fato degli Stoici, tutto è conforme al Fato. Per chi crede nel Caso fortuito, ogni fatto è prodotto dal Caso. Ma queste teorie metafisiche non debbono esimere il poliziotto o lo storico dal ricercare le responsabilità individuali. Citiamo qui la soluzione dei problema che dà la Mishnà: Tutto dipende dalla volontà di Dio, fuorchè gli atti dell'uomo, i quali dipendono dal suo libero arbitrio.(29)
Glie direbbe Lei, caro amico cattolico, se qualcuno l'accusasse di aver ammazzato Lincoln, e poi soggiungesse a mo' di scusa : “La morte di Lincoln fu voluta da Dio e il Signor X. non fu che l'esecutore” ? Io credo che respingerebbe questo perdono ipocrita.
Strana è anche l’asserzione del Lienart che la causa della morte di Gesù sta nei peccati di esso Cardinale e dei suoi contemporanei, come se un fatto d'oggi potesse causare un fatto di quasi duemila anni fa.
Altro cumulo di inesattezze è l'asserzione che l'errore d'Israele fosse di aver pensato di salvarsi da solo coll'osservare i precetti della Legge, mentre invece la salvezza è un dono di Dio, che si ottiene mediante la fede. Vediamo di chiarire un po’ questa confusione.
Nell'Antico Testamento il termine “salvezza” significa liberazione da un pericolo, da un nemico, da un oppressore. Nessun Ebreo ha mai dubitato che Iddio, come ha salvato gli Ebrei dalle mani degli Egiziani, così ha salvato i Romani da Annibale, i Greci da Serse, le colombe dai falchi e le mosche dai ragni.
Nell'uso cristiano “salvezza” si riferisce alla vita eterna. Ma nell'Antico Testamento non ci sono se non pochi accenni alla vita eterna. Questa dottrina fu poi sviluppata nei libri ebraici apocrifi, nel Nuovo Testamento e nel Talmud. Sulla questione di chi sarà ammesso alla vita eterna ci sono opinioni varie così tra i Cristiani come tra gli Ebrei. Tra gli esclusivisti cristiani si può citare S. Gipriano, S. Agostino, S. Fulgenzio, Dante; i quali condannano all'inferno tutti i non cristiani. Tra i Cristiani più equi e generosi citiamo Giustino Martire, Clemente Alessandrino e Zwingli, che ammettevano la salvezza anche per i pagani, e il Gardinai Gushing, che ha condannato certi Gesuiti che sostenevano la dottrina esclusivista. Tra gli Ebrei Rabbi Eliezer negò che i pagani possano partecipare al mondo futuro, ma Rabbi Joshua, Mosè Maimonide e la maggioranza dei rabbini vi fanno partecipare anche i giusti pagani. A questa opinione aderì anche Elia Benanzegh colla sua dottrina dei Noachidi.(30)Sarebbe bene che il Concilio condannasse la dottrina esclusivista portando anche il Cattolicesimo a quell’Universalismo che è proprio del Giudaismo, dell’Islam e del Buddismo.
Quanto ai mezzi per ottenere la vita eterna, è noto che Gesù (Luca X, 25-37) e suo fratello Giacomo (se è sua la lettera che gli si attribuisce) li fanno consistere nelle opere, e invece Paolo e Lutero nella fede. La dottrina di Gesù è superiore a quella del Popolo(31), perché non è giusto fare un merito d’una opinione. Superiore all’una e all’altra mi pare la dottrina di Antigono di Sokho (un savio dell’età maccabaica): “Non siate come servi che servono il loro padrone per ricevere una ricompensa, ma siate come servi che servono il padrone senza curarsi della ricompensa. E che il timor del Cielo vi accompagni” (Pirké Aboth I, 3). In altre parole, obbedite ai comandamenti della Legge senza curarvi della vita eterna o di altro premio. Fais ce que dois, advienne que pourra. Le decisioni di Dio sono imperscrutabili. In questo modo la religione è liberata da ogni motivazione egoistica.
Il Card. Lienart non può certo rimproverare a Israele di essersi “allontanato” dal Cristianesimo. Caso mai, potrebbe rimproverargli di essere rimasto fermo alla religione dell’Antico Testamento e di non avere accettato le molteplici innovazioni introdotte da S. Paolo, dai Padri Apostolici, da Origene, dai Concilii e dai Papi.
Si può approvare senza riserva la condanna del razzismo pronunziata dal Cardinale e ricordare a questo proposito le parole di Amos IX, 7: “Non siete voi per me come i figli degli Etiopi, o figli d’Israele? Dice l’Eterno. Non ho io fatto uscire Israele dalla terra d’Egitto, come i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir?” Vale a dire che Dio non fa distinzione né di razza né di religione.
Bisogna lodare e ringraziare il card. Lienart per i suoi sentimenti generosi e per essersi adoperato a favore degli Ebrei. In particolare mi piace la frase della lettera pastorale: “Sappiamo che, malgrado la diversità delle razze, facciamo tutti parte della specie umana, creata da Dio nell’unità, che tutti gli uomini sono nostri fratelli e che tutti hanno diritto al nostro rispetto e al nostro amore”. Tuttavia mi pare che questa Lettera pastorale contenga anche alcune inesattezze che, come ebreo, non potevo lasciar passare senza rettifica.
Cordiali saluti.
Suo Marco Treves

(1)Per la Quaresima del 1960.
(2) Per i fatti di Gesù, l’unica testimonianza, oltre a una frase di Tacito (Annali XV, 45) sono i quattro Vangeli canonici. Ma questi Vangeli non sono testimonianze immediate dei fatti, né sono il frutto di ricerche storiche obiettive. Sono manuali di catechesi e di propaganda cristiana, composti assai tardi e che hanno subito molte correzioni, tagli e interpolazioni per motivi stilistici, politici e dogmatici. Contengono molte contraddizioni fra loro e nell'interno di ciascuno di essi e molte invero¬ simiglianze e impossibilità storiche. Poiché mancano altri documenti attendibili per ricostruire i fatti, sussistono infiniti dubbi, incertezze e divergenze fra gli studiosi. Gli Evangelisti, scrivendo fra il 70 e il 150, mentre gli Ebrei erano invisi e perseguitati a causa delle tre cruente guerre, si studiano d'ingraziarsi i Romani falsando i fatti e riversando tutte le colpe sui Giudei. I più onesti tra gli studiosi non ebrei (il Conybeare, il Loisy, il Guignebert, il Goguel) hanno osservato questa tendenziosità antisemitica degli Evangelisti.
(3) Già nel Nuovo Testamento compare questa calunnia ripetuta dallo pseudo-Barnaba, da Giustino, da Gregorio di Nissa, da Giovanni Crisostomo, S. Bernardo, Tommaso d'Aquino, Pascal, Lutero, Bossuet, Lamennàis, Giovanni Papini, Daniel Rops e altri meno noti citati da JULES ISAAC, Jésus et Israèl, Fasquelle éditeurs, Parigi 1959, pagg. 351-385; ID. L'Enseignement da mépris, Fasquelle éditeurs, Parigi, 1962. Molti si potrebbero aggiungere, p. es. il Bellarmino col suo orrendo commento ai Salmi. Ma preferiamo ricordare con onore i tanti cattolici (cominciando dai quattro Pontefici Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, coadiuvati da innumere¬voli prelati, religiosi e laici) che hanno difeso gli Ebrei in questo secolo. Anche il Credo, per non offendere i Romani, dice diplomaticamente “patì sotto Ponzio Pilato”, mentre Tacito con più franchezza dice “condannato per ordine di Pilato”.
(4) Quintilio Varo, colui che poi fu trucidato dai Tedeschi nella selva di Teutoburgo, crocifisse 2.000 Ebrei (Flavio Giuseppe, Ant. XVII, x, 10). Pilato fece cro¬cifiggere Gesù con due banditi (o forse insorti). Tiberio Alessandro fece crocifiggere Giacomo e Simone, figli di Giuda di Galilea (Flavio G. Ant. XX, v, 2). Ummidio Quadrato, legato di Siria, fece crocifiggere molti Giudei (Flavio G. Ant. XX, vi, 2; Guerra, II, xii, 6). Il procuratore Felice fece crocifiggere innumerevoli banditi (ibid. II, xiii, 2). Floro e i soldati romani nel 66 uccisero 3.600 uomini, donne e bambini di Gerusalemme, in parte con le armi, in parte con la crocifissione (ibid. II, xiv, 9). Durante l'assedio Tito catturava i non combattenti affamati che andavano a cercare cibo fuori delle mura e ne faceva crocifiggere 500 al giorno (ibid. V, xi, 1). Dopo la presa della città, Giuseppe vide crocifiggere molti prigionieri (Vita, 75). Tito, per festeggiare il compleanno di suo fratello, fece ammazzare 2.500 Ebrei in combattimenti colle belve o ardendoli (Guerra, VII, iii, 1).
(5)Si versano lagrime per l'atroce sorte di Gesù, altrettante lagrime meriterebbero le altre migliaia di sventurati crocifissi dai Romani, che non risorsero dopo due di e non furono celebrati da poeti né da pittori. È vero che non porgono pretesti a invettive antisemitiche.
(6) Flavio G., Ant. XVII, xiii, 1; XX, viii, 8; ix, 1, 2, 4.
(7)Nel 6 d.C. Quirinio destituì il sommo sacerdote Joazar figlio di Boeto e nominò Anan figlio di Seth. Nel 15 Valerio Grato destituì Anan e nominò Ismael figlio di Phabi. L'anno seguente destituì Ismael e nominò Eleazar figlio di Anan. L’anno seguente destituì Eleazar e nominò Simone figlio di Kamith. L'anno se¬guente destituì Simone e nominò Giuseppe detto Caiapha. Vitellio destituì Caiapha e nominò Gionata figlio di Anan. L'anno seguente destituì Gionata e nominò Teo¬filo, altro figlio di Anan.
(8) Composta da certo Abba Saul (Pesachim, 57 a):
“Ahimè la famiglia di Boeto, ahimè!
perché percuotono coi bastoni!
Ahimè la famiglia d'Anan, ahimè!
pei loro sussurri maligni!
Ahimè la famiglia di Kàntheras, ahimè!
per le loro penne calunniatrici!
Ahimè la famiglia d'Ismael ben Phabi, ahimè!
per i loro pugni.
Che essi sono sommi sacerdoti,
i loro figli sono tesorieri,
i loro generi capitani del Tempio,
e i loro servi percuotono il popolo coi bastoni”.
Queste famiglie sacerdotali erano imparentate tra loro e tennero il sommo sacerdozio dal 34 a.C. al 62 d.C.
(9) M. MAZZUCCHELLI, I segreti del processo di Verona, C. Del Duca, Milano, 1962.
(10)Se dobbiamo credere a Giovanni, XI, 50, Caiapha fu indotto a ordinare l'arresto da ragioni politiche e non da rancori personali. Ma ancora non era avve¬nuto il tafferuglio con le guardie.
(11)Flavio G., Ant., XIII, x, 6 ; XVIII, i, 4. Invece i Farisei erano alcune migliaia (ibid. XVII, ii, 4) ed avevano grande influenza tra il popolo (ibid. XIII, x, 6 ; xv, 5 ; XVIII, i, 3-4).
(12)Flavio G. (Guerra, II, xiv, 3) dice che al tempo di Cestio Gallo erano presenti a Gerusalemme per la Pasqua più di tre milioni di Giudei. Altrove (Guerra VI, ix, 3) calcola a 2.700.200 coloro che nella stessa occasione erano validi per il minyan. Aggiungendo le donne e i bambini si arriverebbe a sette milioni almeno, cifra certo troppo grande. Cecil Roth (Storia del popolo ebraico, Silva editore, Milano 1962, pag. 143) calcola a due milioni gli Ebrei della provincia della Siria.
(13)Filone (Contro Fiacco, § 6) stima a un milione il numero degli Ebrei in Egitto.
(14) Margolis e Marx (A History of the Jewish People, New York, 1958, cap. XXXVI) dicono che ai tempi dei Romani gli Ebrei oltre l'Eufrate erano milioni. Flavio G. (Ant., XV, iii, 1) dice parecchie decine di migliaia.
(15)La presenza di numerosi Ebrei in Persia risulta dai libri di Ester e di Tobia.
(16)T. Reinach (The Jewish Encyclopedia, art. «Diaspora») calcola a 180.000 gli Ebrei in Asia minore.
(17)Gli Ebrei di Cirene e di Cipro si ribellarono poi sotto Traiano e furono domati in una lunga e cruenta guerra (Dione Cassio I, xviii, 32).
(18)Gli Ebrei a Roma erano più di 8000 secondo T. REINACH, loc. cit. Tiberio ne mandò in Sardegna 4000 e ne punì un numero maggiore (Flavio G., Ant., XVIII, iii, 5). Secondo J. Beloch gli Ebrei della Diaspora erano in tutto tra quattro e sette milioni.
(19)Compresi gli Apostoli, secondo Atti, I, 6.
(20)Flavio G., Ant., XVIII, i, 1, 6 ; Guerra, II, viii, 1.
(21)Digesto, XLVIII, iv, 1-4.
(22)L'espressione “regno dei Cieli” del Primo Vangelo equivale al «regno di Dio” degli altri. I Cieli in senso atmosferico o astronomico o come dimora dei Beati non c'entrano.
(23) Alcuni studiosi (Gfrorer, Ghillany, Holtzmann, Schenkel, , Keim, Schweitzer) tentarono di distinguere un messianismo e un regno di Dio spirituale dal messianismo e dal regno di Dio politico. Ma tale distinzione è ignota ai testi cristiani più antichi. Gli Apostoli stessi interpretavano il regno in senso politico. Quei tedeschi vorrebbero saperne più che gli Apostoli ? Neanche la distinzione del Bultmann tra l'escatologia nazionalista e l'escatologia cosmica è accettabile. Già nel secolo XVII il Reimarus aveva osservato che Gesù non spiega e non definisce che cosa intendeva per “regno di Dio” appunto perché usava la frase nel significato usuale tra i Giudei dei suoi tempi. Un secolo dopo il Reimarus, Monsiglior Ceriani scopriva nella Biblio¬teca Ambrosiana gli apocrifi di Mosè e di Baruch, i quali risolvono il problema del Reimarus. Sul Messianismo degli Ebrei consigliamo il libro di JOSEF KLAUSNER, L'idea messianica in Israele.
(24)Gli episodi 2 e 3 sono narrati nei Vangeli in modo da farli apparire come adempimento delle profezie di Zaccaria X, 9 e XIV, 21, le quali veramente si rife¬riscono a tutt'altro. Ma non si esclude che sotto la deformazione evangelica si nascon¬dano dei fatti veri. Se Gesù veramente potè sopraffare tanti venditori e cambiavalute e se non fu arrestato immediatamente, doveva essere accompagnato da un folto stuolo di discepoli armati.
(25) “I fomentatori d'insurrezioni e di tumulti e gli agitatori del popolo sono crocifissi o gettati alle belve o esiliati secondo la loro classe sociale” Digesto, XLVIII, 19, 38, 2.
(26) Tacito, Annali, libri IV e VI. Svetonio, Tiberio, 58 e 61.
(27) PIERRE VAN PAASSEN, Why Jesus Died, New York 1949, pag. 156.
(28) R. W. HUSBAND, The Prosecution of Jesus, Princeton, 1916.
(29) Tutto è nelle mani del Cielo, fuorché il timor del Cielo (Berachot, 33b). Quando un uomo è concepito, un angelo domanda al Santo Benedetto : “Sovrano dell'Universo, che cosa diventerà quest'uomo? Sarà robusto o gracile, savio o sciocco, ricco o povero? Ma non domanda se sarà buono o malvagio” (Niddah, 16b). Tutto è preveduto da Dio, ma la volontà dell'uomo è libera (Abot, III, 19).
(30)Vedere il Santuario sconosciuto d’Aimé Palliare.
(31)Paolo stesso nella I Corinzii, cap. XIII, sembra ritrattare gli errori delle Epistole ai Romani e ai Galati e riavvicinarsi alla dottrina ebraica.